Leggi il 1° capitolo di "Ruveon"

"Ruveon" di Andrea Rundo

 

Capitolo 1

In giardino aleggiava un silenzio spettrale.
Alan si fermò a osservare le ombre dei pini. La luce dei lampioni le allungava sul terreno, il vento le faceva ondeggiare. Quel movimento gli dava sempre l’impressione che ci fosse qualcuno – o qualcosa – nascosto tra i rami. Scandagliò con lo sguardo ogni angolo oscuro per accertarsi che non ci fosse nulla che potesse piombargli addosso all’improvviso. Quando fu soddisfatto, con la mano libera spinse il cancelletto. Il cigolio riecheggiò nell’aria, stridulo e sinistro. Alan si sistemò gli occhiali da vista. Trattenne il fiato. Tornò la quiete ma poi un rumore spezzò il silenzio: ululati, passi veloci e pesanti. Sempre più vicini. 
«Aspettate!» gridò, alzando le mani verso le due figure che gli correvano incontro.
I due pastori tedeschi gli furono addosso in un lampo. Lucille, la più grossa, lo scaraventò a terra e gli leccò il viso. Jesus la imitò. 
«Fermi! Fermi!» protestò lui, ridacchiando.
Le feste durarono un po’ troppo e Alan si ritrovò con il sedere bagnato dalla brina notturna. I cani avevano cominciato a guaire, la lingua a penzoloni. Giravano su loro stessi senza sosta. 
«Okay, ho capito!» esclamò Alan, cacciandoli indietro. «Cavolo, sembra che non mangiate da settimane!»
Tra lappate e salti, arrivare alla grossa casetta di legno dove Lucille e Jesus trascorrevano la notte e raggiungere il bidone delle crocchette lì accanto fu un’impresa. Sollevò il coperchio, affondò il braccio con la prima ciotola e quasi ci cadde dentro nel raggiungere il fondo.
«Maledizione!» imprecò, sollevandosi e inclinando il contenitore. 
Lo sconforto di Lucille quando vide emergere la scodella vuota fu quasi commovente. Il cane leccò invano la mano di Alan, prima di arrendersi all’evidenza. 
Lui sentì la rabbia montargli dentro, un calore intenso che gli infiammò il petto, facendogli dimenticare il freddo della sera ottobrina. Non era un suo compito, quello di dare da mangiare ai cani. Toccava a Robin, prima di uscire di casa, ma lui se n’era dimenticato. 
«Aspettate, calmi,» disse, sospirando. «Torno subito.»
Ignorò i guaiti, troppo alterato per darvi importanza. Dopo la litigata nel pomeriggio, il padre aveva messo Alan e suo fratello in punizione. A lui, ovviamente, era toccata la peggiore. Odiava lavare i piatti e quella sera il lavandino traboccava di stoviglie incrostate. Aveva ancora le mani raggrinzite dopo mezz’ora nell’acqua bollente, e adesso scopriva che Robin se n’era andato dalla fidanzata senza nemmeno fare l’unica cosa gli era stata imposta!
Alan aveva solo tredici anni, ma spesso sentiva di essere lui il fratello maggiore. La cosa più frustrante era che anche i loro genitori sembravano pensarla allo stesso modo. Avrebbe voluto ribellarsi, dirgli che non era giusto. Ma ogni volta che era sul punto di farlo, la madre lo abbracciava e gli sussurrava “Sei sempre così carino” o qualche altra sciocchezza, e la sua rabbia si dissolveva in un soffio.
Quella notte la madre era di turno in ospedale mentre il padre sorseggiava una birra sul divano, gli occhi fissi sulla televisione. 
«Ehi, Alan!» gridò appena sentì la porta richiudersi. «Perché stanno ancora piangendo quei due?»
Alan alzò gli occhi al cielo, esasperato. 
«Perché non c’erano più crocchette.» Entrò in salotto. «Cosa gli do da mangiare?»
Il padre voltò appena la testa, teneva i piedi appoggiati sul tavolino di legno.
«Ma come…» borbottò, tirando su con il naso. «L’ho riempito da poco, mangiano come una mandria i tuoi cani!»
«Quindi?» insistette Alan, sempre più impaziente di rinchiudersi in camera e dedicarsi a qualche fumetto. 
«Sono quasi sicuro che ci sia un’altra confezione, ne avevo prese almeno tre,» grugnì, sistemandosi sul divano in una posizione più comoda. «Va’ a vedere.»
Alan si sentì mancare. 
«Ma dove? Nel capanno?»
L’uomo annuì, stavolta senza nemmeno voltarsi, poi scoppiò a ridere. La televisione stava trasmettendo lo spettacolo di uno dei suoi comici preferiti. 
Alan odiava quel posto. Non ci metteva piede se non era obbligato. Sbuffando, raggiunse la porta di servizio in cucina. Accese l’interruttore della luce esterna e osservò il passaggio asfaltato che portava al capanno degli attrezzi o, come l’aveva ribattezzata Robin, la mecca di tutti i ratti di Ruveon. Persino da casa, riusciva a scorgere un’enorme ragnatela tesa tra la maniglia e il barbecue coperto da un telo nero. La sua bicicletta era appoggiata contro la rete metallica, poco più in là. Il parafango della ruota posteriore, un poco inclinata, rifletteva la luce. 
Recuperò una scopa e affrontò di nuovo il freddo serale. Sentiva i guaiti dei cani dall’altro lato della casa. Per il resto, nessun rumore. La lampadina sfarfallò, facendogli perdere diversi battiti cardiaci. Si fece avanti e, tendendo la scopa, catturò tutte le ragnatele con le setole. Non smise mai di imprecare contro il fratello. 
Strinse i pugni e fece un respiro profondo. Gli era sembrato di sentire un rumore, un fruscio e, per poco, non tornò sui suoi passi.
«Non pensarci… non pensarci…» sussurrava tra sé e sé, cercando di ignorare il ricordo della coda grassa e rosa del grosso topo che vi aveva scorto solo pochi mesi prima. «Prendi il sacco e corri via…»
Senza più aspettare, spalancò la porta. Era buio là dentro. Si diede dell’idiota per non aver preso una torcia prima di uscire. Le vecchie assi di legno lasciavano passare dei minuscoli raggi tenui. Un pettine di luce che spezzava l’oscurità, permettendogli di individuare anche gli oggetti nascosti nella penombra in fondo al capanno. Sulla sinistra erano accatastati diversi maleodoranti sacchi della spazzatura. Poco più in là, il tagliaerba. Sulla destra il mobiletto degli attrezzi e, sul banco, diverse viti sparpagliate qua e là. Niente di strano. Nessun rumore. La puzza era nauseante, come sempre. Eppure, nell’immobilità della sera, gli sembrava che ci fosse qualcosa di diverso. 
La luce alle sue spalle vibrò ancora. 
«Okay… basta…» disse, e fece un mezzo passo avanti prima di bloccarsi di nuovo.
Mise a fuoco qualcosa a qualche metro da lui, vicino al mobile in cui tenevano i rastrelli, le cesoie e altra attrezzatura da giardino. Sembrava un manichino o… la figura avanzò, lentamente. 
Alan non riuscì a reagire. Restò paralizzato nel vedere due piedi gonfi e bluastri emergere dall’ombra trascinarsi sul vecchio linoleum, rischiarati appena dalla luce giallastra alle proprie spalle. Tra le dita vi era traccia di fango, foglie e sangue. Solo allora si mise a gridare. 
Volò fuori e, senza rendersene conto, si ritrovò disteso in cucina, mentre strisciava nel tentativo disperato di allontanarsi dal capanno.
«Alan!» 
La voce atterrita di suo padre risuonò in tutta la casa. 
Seguirono tonfi, passi veloci e poi l’uomo fu al suo fianco. Alan non poteva vedere la propria espressione, ma vide quella terrorizzata del padre, che gli passò entrambe le braccia sotto il corpo e lo sollevò senza fatica. Lo strinse forte e Alan si abbandonò a un pianto sconsolato.
«Sarà stata la tua immaginazione,» disse il padre più tardi, accarezzandogli la fronte. 
Alan tremava ancora, nonostante la pesante coperta. 
«Nel capanno non c’è niente. Devono essere stati tutti quei fumetti dell’orrore che leggi. Ti senti meglio?»
Alan annuì, senza spiccicare parola, anche perché il bacio che ricevette sulla fronte gliele tolse tutte. Respirò il suo alito di birra, un odore che non aveva mai apprezzato prima. Il padre non aggiunse altro. Si limitò a stendersi al suo fianco e ad abbracciarlo, finché entrambi non scivolarono in un sonno profondo.

 

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