Prima che il buio – Nico Priano – Anteprima Gratis

Prima che il buio

Prima che il buio – Nico Priano – Anteprima Gratis

In anteprima il primo capitolo della nostra prossima uscita: “Prima che il buio” di Nico Priano.

Buona lettura!

 

 

1

Giugno 1935

L’alba si era presentata all’Oriana con l’abbaiare di un randagio e il volo di una gallina. Un volo che non portava da nessuna parte e soprattutto non avrebbe mai permesso alla “rossa” di vedere la cascina dall’alto, di planare sui filari coltivati a Dolcetto, sui campi di erba medica e sulla stalla, di fare un verso da lassù alle capre e alle oche.

Era un volo, quello delle galline, che ricordava certi slanci della fantasia, in particolare lì, dove la vita era dura per tutti e spazio per fantasticare ce n’era poco. Si volava basso, per inerzia, sognando tempi migliori. Così era stato fino ad allora, pensava Michele, sveglio nel letto, mentre il sole s’infilava piano dentro la stanza.

Adesso però c’era qualcosa di nuovo in lui e pure nelle cose che aveva intorno. Un nome da dire e da ridire all’infinito, un’immagine che non se ne andava nemmeno quando chiudeva gli occhi, anzi.

Si alzò e sul tavolo della cucina trovò una tazza di latte di capra ancora tiepido. Nel cortile, gli strumenti da lavoro poggiati qua e là: una carriola, una cesta, un paio di scarpe vecchie addossate al muro.

Il cielo prometteva burrasca e il vento “di mare” sembrava volere entrare nelle case e tirar fuori quello che trovava dentro, persone, oggetti e storie, e mettere tutto insieme, come si faceva quando si bruciavano le cose vecchie e inservibili.

Ma lì tutto era vecchio. Un universo intero, un mondo che si trascinava in una specie di penombra, con le sue case antiche, le aie sassose, i pozzi, le cantine, le stanze piene di arredi miseri, di vettovaglie e utensili destinati a lavori faticosi e desueti.

Poi, però, sarebbe ritornato il sole, quello di giugno. Avrebbe sedotto persone e cose con parole irripetibili. Frequentava quei posti da chissà quanto tempo. E così la gente, di generazione in generazione. Ne conosceva i nomignoli, tramandati di padre in figlio, le avventure, le sventure, le occasioni, i passi falsi. E le rughe, le voglie, le cicatrici. Conosceva quelli nati con la camicia e quelli venuti fuori con l’itterizia, gialli come limoni, e i settimini e i gemelli biovulari. Tutti a gridare, sotto quel cielo monferrino, tra le vigne e i campi d’erba medica. Un universo che sembrava marginale, dimenticato, lontano dalle grandi città, dove le notizie arrivavano già chiacchierate, dove il presente era un tratto di fiume così distante dalla sorgente. E lì, in quelle case contadine, vivevano fino all’estinzione famiglie di esseri umani e di animali: capre, mucche, cani. Lignaggi poveri, spesso unica eredità per i nuovi arrivati. Gli Scarzurein, i Balurdon, i Badul, i Bugianent, quei d’Michè e tutti gli altri, fino a giungere a Giovanni delle Corriere, perché “È la funzione che crea l’organo,” diceva Lamarck, e a volte non solo quello ma anche il nome che ti porti appresso.

Michele c’era nato all’Oriana, così come c’erano nati suo padre e suo nonno.

Anche Mina, la capra, aveva visto la luce lì, e pure i maiali, il vitello e decine di conigli, tutti grigi, come l’autunno.

Il ragazzo osservò la casa dalla soglia: l’intonaco rosa pallido, le persiane verdi, il tetto e la porta, anche quella verde ma di un colore sbiadito, stancato dal tempo. E poi più in là gli alberi da frutto: il ciliegio, i peri e il noccioleto, che scendeva a sbalzi verso lo spiazzo coltivato a orto, con il pozzo in muratura, precisamente nel mezzo.

Dietro la stalla invece c’era il pollaio e ancora dietro la conigliera. Da qualche anno sul lato destro della casa, suo padre aveva costruito la latrina. Un rettangolo di legno e lamiera con una finestrella che dava sul vigneto.

Quella era l’Oriana. Una cascina a tre chilometri da Molare, mezz’ora buona fatta a passo svelto.

«Ma sei ancora qui? Non ti sei ancora cambiato?»

Dusolina, la sorella di Michele, guardava il fratello scuotendo la testa. Capelli scuri, occhi verdi come un fiasco da imbottigliare e una bocca larga e carnosa sempre impegnata in chiacchiere. Diciott’anni aveva Dusolina, ma fidanzati niente. Ché non aveva tempo per quelli, diceva lei.

«E mettiti la camicia bianca, ma prima lavati un po’. Te lo do io un bel pezzo di sapone.»

«Sì, sì, neanche si sposasse il Re o il Duce. Piuttosto, me li hai cuciti i calzini? Quelli bucati davanti, ché mi servono, non per oggi, ma…»

«Cuciti e piegati. Sono nel cassetto, vicino alle canottiere e alle mutande. Adesso fammi andare, ché devo portare l’acqua nella vigna. La mamma e il papà sono lassù dalle sei! Va bene che oggi c’è il matrimonio del tuo amico, ma se non è una cosa è l’altra, sempre una scusa, dovresti vergognarti, e parecchio.» La ragazza guardava il fratello con aria di rimprovero. «Stamattina era ancora buio che ho sentito passare Remigio. Ha due anni meno di te ed è già lì, a Uasina, a seminare zucche e verze. Dovresti lavorarci un po’ anche tu per il marchese, invece di andare in giro di giorno e di sera. A proposito, ieri ho spento la candela che sarà stata mezzanotte e non c’eri ancora. Non lo dico per me, eh, ma la mamma si preoccupa, lo sai.»

«Hai finito? Ieri sono andato alla fiera di Cassinelle. Ho fatto tardi per colpa della bicicletta. Ho forato. Può capitare a tutti, no? E comunque uscire di casa farebbe bene anche a te. Finirai zitella se continui così, ché già una gran bellezza non sei, se poi ti chiudi in casa è anche peggio. Cosa aspetti? Il principe delle favole?»

Neanche il tempo di finire la frase che Dusolina se n’era già andata con una bottiglia di vetro per mano verso la cima della collina.

Era bella la collina dell’Oriana. Da lassù lo sguardo abbracciava le montagne, i castagneti e i campi di grano, fino al fiume che scorreva in fondo alla piana a lambire sponde di tufo, tra acacie e pruni selvatici.

Al di là di quell’orizzonte c’era Genova, città di gente furba, gente d’affari, abituata al mare, a quel vento che prendeva le cose e le trasformava, le riempiva di profumi, le lucidava come scarpe da ballo.

Guardando dalla parte opposta, invece, il panorama diventava piatto, come a stendere un lenzuolo matrimoniale, di quelli larghi, fino a Tagliolo, riconoscibile dalla sagoma del castello. Nelle giornate più limpide si riuscivano a scorgere montagne lontanissime, innevate fino a tarda primavera. Posti che non avevano un nome, dove né Michele né i suoi amici erano mai stati e dove probabilmente non sarebbero stati mai.

L’Oriana si poteva raggiungere in tre modi. Tre strade o per meglio dire tre sentieri.

Il primo tagliava dalla direttrice Cassinelle-Molare, l’altro lambiva le case dei mezzadri di Campale e il lavatoio, l’ultimo attraversava il borgo dei Pliz, tra oche e galline. Viottoli di puro sterro, buoni per gli uomini e per le bestie, dove i carri passavano a fatica.

Michele abitava all’Oriana con la sorella e i genitori, Pino ed Eliana, due quarantenni cresciuti troppo in fretta tra fame e guerra. Pino era stato sul Podgora, in trincea, e c’era mancato davvero poco che il suo nome non finisse in mezzo agli altri, sulla lapide dei caduti, in piazza, a Molare. Lui li conosceva bene, uno per uno, i ragazzi citati sulla lapide, ne ricordava la faccia, la voce, i soprannomi.

Alcuni di loro erano crepati subito, appena arrivati al fronte, altri erano morti in seguito, magari dopo il ritorno a casa, a causa di mutilazioni o malattie contratte in trincea.

Pino se la sognava ancora adesso la guerra: il freddo, il fango, il buio dei camminamenti, il sangue.

Ma se la guerra popolava i suoi sogni, restava invece fuori dai suoi discorsi. Anche con Eliana, Pino si limitava alle frasi retoriche, di uso comune, che avrebbe potuto dire chiunque. Ricordi pochi e radi, liquidati in un brivido.

Eliana l’aveva conosciuta a scuola, su al santuario della Madonna delle Rocche. Una sezione unica che raggruppava i bambini della zona. Lei viveva a pochi passi dal bosco in una cascina di dimensioni modeste. Niente terra, solo un piccolo pollaio. Giovanni, suo padre, era il postino di Molare, sua madre invece si arrangiava con lavoretti di sartoria, giusto per arrotondare il magro salario del marito.

Pino ed Eliana si erano fidanzati presto e si erano sposati poco prima dello scoppio della guerra.

Dusolina era nata mentre il padre si trovava al fronte, figlia di una licenza premio conquistata nel macello di un assalto. Una lettera, la grafia stentata, una fotografia.

Michele, invece, era il figlio del reduce, la spiaggia deserta di un naufragio, il germoglio che colorava un ramo secco.

La sera precedente, Michele e i suoi amici erano stati a Cassinelle, alla sagra del paese, per festeggiare l’addio al celibato di Severino, il primo della compagnia a fare il grande passo.

Il ragazzo aveva deciso di trascorrerla così la sua ultima notte da scapolo, con le gambe sotto il tavolo e il fumo dei ravioli che saliva dalla scodella e ti si infilava nel naso. Con il vino rosso, i ravioli, l’orchestra, il ballo e le ragazze vere, quelle che andavano “lavorate”, conquistate sul campo.

L’alternativa sarebbe stata quella di spendersi la banconota che aveva in tasca al casino, da Marianna, la custode, che prima prendeva i soldi e li infilava nel grembiule e poi te lo insaponava, nell’acqua calda.

«T’ei furtnò, fanciot, ché quella nuova di Alessandria ha finito il marchese proprio ieri.»

No, niente casino, il gruppetto di amici si era dato appuntamento ai lavatoi di Campale, prima del tramonto.

Oltre a Severino e a Michele, a cavalcioni delle biciclette, c’erano Tullio e Franco delle Caminate.

Tullio era conosciuto da tutti come “il Boxeur” per il suo talento sportivo, supportato però da una volontà scostante che lo aveva visto abbandonare più volte i ring, deciso a smettere, per poi ripresentarsi e magari vincere contro ogni pronostico, giusto per fare colpo su una ragazza o rimediare un po’ di soldi quando non spicciolavano più nelle tasche.

Alto, capelli neri e un tatuaggio che rappresentava il muso di una tigre con le fauci spalancate e i denti affilati.

Ne aveva stesi parecchi e la sua fama era cresciuta, a Molare e nel circondario, al punto che ormai si mettevano contro di lui solo i matti e gli ubriachi, gli altri cercavano di stargli alla larga.

«Allora? Anduma?»

Severino tirava l’andatura con le bici che procedevano in fila indiana: le dinamo come lucciole processionarie a piegare sui tornanti e poi in alto, sulle rampe, a sobbalzare tra i filari di vite e gli alberi da frutto allineati sul ciglio della strada.

Il primo sasso rimbalzò proprio davanti alla bicicletta di Severino, il secondo fischiò nell’aria, perdendosi poi in un fosso.

Non si trattava di una grande sorpresa, anzi, capitava regolarmente che in occasione di sagre e feste patronali si scatenassero schermaglie di campanile più o meno accese. I foresti non erano bene accetti. E non c’erano altri modi di impartire quella lezione al di là delle maniere forti: una sassaiola, una rissa, la lama di un coltello in bella mostra.

Erano conti aperti, destinati a restare inevasi per sempre.

Michele aveva allungato il passo, con la stoffa di un vero ciclista. Era fiero della sua Wally, una bici con il manubrio ricurvo e i freni a bacchetta, ridipinta di verde per assomigliare a una Campagnolo, roba da campioni.

A scegliere il nascondiglio fu Severino. «Ce l’ho già messa altre volte, tranquilli. E poi è il posto giusto per cambiarci, metterci le scarpe buone, da ballo. E te, Franco, ci sei andato dal barbiere a farti dare la brillantina?»

L’amico rispose facendo l’occhiolino. «Ne ho per tutti. Tre barattoli ne ho preso. E quell’uruk non si è accorto di niente.»

La sagra era stata allestita in un grande spiazzo: i tavoli del ristorante, i giochi a premi rudimentali e in mezzo la pedana riservata all’orchestra. Un cartello appeso al ramo di un albero recitava: “Le Dolci Note, i classici della musica da ballo italiana”.

I quattro amici finirono i ravioli gustando il brodo vinoso in fondo alla scodella. Un rutto, una risata e la luna appesa in cielo, come un gomitolo in mezzo agli spilli.

 

 

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