Leggi il 1° capitolo di “Verso il mare”

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Verso il mare, di Federica Gaspari.

Verso il mare

Capitolo 1

 

Treviso, mercoledì 18 gennaio

Pace, solo di questo sento di avere bisogno. Non voglio più nient’altro che pace. Serenità, tranquillità, silenzio e pace.

«… mi stai ascoltando?»

No, Enrico, non ti sto affatto ascoltando. Mi ero nascosto tra le pieghe dei miei pensieri per allontanarmi da qui, per non sapere cosa vuoi che faccia oggi per occultare i tuoi segreti.

«Certo,» rispondo invece, senza alzare la testa dalla rivista che ho appoggiato sulle ginocchia, uno di quei settimanali dedicati al Sudoku. Ho scoperto solo negli ultimi tempi che questa attività – il risolvere piccoli enigmi numerici – mi aiuta a rimanere focalizzato sulla realtà, a rifuggire le ansie e l’orribile situazione nella quale sono stato catapultato da un paio di mesi.

Jack, al secolo Giacomo Casadei, classe 1963 – sempre che il documento che ho visto nel suo cassetto non sia un falso – tossicchia per mascherare una risata che di certo farebbe saltare i nervi a Enrico. Cazzo, i nervi di Enrico sono talmente sensibili che mi chiedo come abbia fatto a sopravvivere nel mondo fino a questo momento senza uccidere qualcuno. Ah, certo, non lo ha fatto. Ottimo, ora viene da ridere anche a me.

Mi porto davanti alla bocca la mano guantata nella quale impugno la penna, per nascondere il sorrisino che mi è spuntato sul viso e che rischia di innescare un’esplosione nucleare nella stanza.

Enrico De Riva, il mio attuale datore di lavoro, se così lo si può definire, batte entrambi i pugni sul tavolo che ci separa, allungandosi sopra il piano in legno scuro con intenzioni minacciose.

«Porca troia, Giuliani, molla quel cazzo di Sudoku e ascoltami. Abbiamo un problema,» ansima.

Scuoto appena la testa, rifiutandomi ancora di sollevare lo sguardo dalla pagina; non voglio dargliela vinta, almeno finché non sarò costretto a farlo.

Jack, accanto a me, cerca di richiamarmi all’ordine con una gomitata alle costole che non ha il risultato sperato. Continuo a ragionare su numeri e caselle, completamente disinteressato al resto.

Lo schiaffo arriva inaspettato, anche perché nessuno ha mai avuto la malsana idea di alzare le mani con me. Mi tiro su di scatto dalla sedia, afferro il polso di Enrico, trascinandolo verso di me, e lo colpisco con una testata al volto. Sento il crack del naso che si rompe e a questo punto sì che alzo gli occhi. Un fiotto di sangue gli esce dalle narici e imbratta il mio magazine, con tutti i suoi numeri salvifici.

«Porca puttana!» grido in preda all’agitazione. Il Sudoku è l’unica cosa che mi tiene ancorato a terra, non posso perderlo.

Jack si frappone tra me ed Enrico, ma io non li guardo, non li calcolo affatto: tutta la mia attenzione è sulla rivista, ormai rovinata.

Le urla di De Riva mi giungono ovattate, sembra incazzato nero. «Giuliani, stavolta ti ammazzo! Maledetto pazzo che non sei altro!»

Fosse vero! mi sorprendo a pensare, ma sappiamo entrambi che la morte non è la soluzione che l’onnipotente Enrico De Riva ha scelto per me. Sarebbe troppo semplice, non soffrirei abbastanza per quelle che secondo la sua mente contorta sono le mie colpe, ereditate da un padre innocente.

Il mio compagno di disavventure sta tamponando il naso del nostro capo con un fazzoletto ormai rosso, e cerca di spingerlo verso il corridoio, probabilmente per portarlo in bagno. Enrico fa resistenza, lanciandomi sguardi di fuoco, ma dopo qualche ringhio rabbioso si lascia andare e segue Jack oltre la soglia.

Chissà cosa ha combinato per farsi tenere in pugno in questo modo da Enrico. Jack, dico. Non mi ha mai parlato della sua vita prima, ma l’ho sempre immaginato con una divisa di qualche tipo: troppo ligio al dovere, troppo pronto a ubbidire agli ordini, troppo addestrato per essere un civile. Me lo vedrei bene negli artificieri, con quella sua lucida calma che non perde mai, neanche nelle occasioni più spinose. Come quando il tuo socio decide di spaccare la faccia al vostro datore di lavoro.

Stringo ancora in mano il settimanale pieno di sangue. Sbuffo e lo lancio contro la parete; sul muro bianco rimane una chiazza rosa appena percettibile, a imperitura memoria del momento in cui ho segnato la mia condanna a una morte che non può avvenire.

«Fanculo!» mormoro tra i denti serrati, stretti così forte che le mascelle mi fanno male.

Mi tasto le tasche del giaccone finché trovo quello che sto cercando; il pacchetto è stropicciato e mezzo distrutto, ma l’importante non è l’involucro, quanto il suo contenuto. La sigaretta scivola fuori a fatica dal cartoncino bianco spiegazzato, lasciando cadere qualche briciola di tabacco. Sul tavolo di legno scuro che Enrico ha preso a pugni prima che la mia testa si scontrasse con il suo setto nasale trovo un accendino rosso. Allungo la mano chiedendomi se fosse rosso anche prima. Me lo avvicino al viso per fare fuoco e mi accorgo che lo era. Rosso. Come la morte.

Alla prima boccata chiudo gli occhi, trovando nella nicotina un momentaneo antidoto alla rabbia. Sento le braccia alleggerirsi, i muscoli che si rilassano, e mi metto di nuovo a sedere, stavolta sul divanetto a due posti in pelle nera addossato alla parete su cui ho lanciato la rivista insanguinata.

Enrico mi ucciderebbe – ah, se solo potesse! – se sapesse che ho ripreso a fumare dopo tutto quello che ha fatto per farmi smettere; dice che è un rischio che non possiamo correre: un mozzicone, la saliva, il dna.

Risultato? Avevo preso a mangiarmi le unghie e spendevo più in chewing‑gum che in carta igienica, e chi fa la spesa sa quanto costa al giorno d’oggi la carta igienica. E poi di notte digrignavo i denti – dicono sia un’abitudine molto comune – e avevo i muscoli della mandibola e della mascella sempre dolenti a furia di contrarli. A un certo punto ho semplicemente pensato che le stesse cose che ha detto Enrico sui mozziconi si possano applicare anche alle pellicine, alle unghie e ai chewing‑gum, quindi ho optato per il male minore. Più o meno.

Distendo le gambe e incrocio le caviglie, godendomi finalmente la sigaretta, il silenzio e la pace di cui avevo bisogno.

Sui problemi di Enrico, sulla morte, mia o di qualcun altro, mi concentrerò più tardi. Per ora resto qui, in pace, e non ci penso.

 

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