Leggi il 1° capitolo di “Il passeggino bianco”
Il passeggino bianco – Una storia vera di amore, di guerra e di demoni, di Franco Sanfilippo.
Il passeggino bianco
Capitolo 1 – IL CIELO ROSSO
Le esplosioni avevano distrutto tutto e le deflagrazioni erano state così potenti da essere udite a centinaia di chilometri. Un bagliore accecante s’era sprigionato all’improvviso e la gigantesca nube nera aveva oscurato di colpo il cielo, consegnando quel giorno al potere delle tenebre.
La mattina del 13 luglio 2007, Baghdad si era svegliata così, e così avrebbe fatto memoria dell’ennesimo massacro. La prima detonazione aveva sfigurato il quartiere di Karrada, un’area a maggioranza sciita, dove un commando di terroristi aveva fatto deflagrare un mezzo carico di esplosivo davanti a un centro commerciale affollato di persone. Mezzogiorno era passato da poco e intere famiglie si erano riversate felici nelle strade, abbellite a festa, per celebrare la fine dell’Eid Al Fitr. L’esplosione aveva fatto crollare, all’istante, un’intera ala dell’edificio, schiacciando sotto le macerie una moltitudine di persone, uscite in strada dopo la fine del digiuno del Ramadan.
Da un primo bilancio, trasmesso dalle autorità cittadine, venne diffusa una notizia a dir poco inquietante: in quell’infernale mattinata, avevano perso la vita un centinaio d’innocenti e tra essi, s’era saputo subito, erano stati uccisi almeno diciassette bambini. Ufficiali di polizia avevano descritto come devastanti i danni prodotti dall’autobomba e i testimoni raccontavano di come alcune persone usassero cassette delle verdure per raccogliere i resti dei morti. Il sangue aveva, letteralmente, lavato le strade e una folla inferocita si era riversata per le vie assolate, lanciando sassi ovunque e fracassando i finestrini delle auto in sosta per sfogare una rabbia incontenibile. Gli scontri con la polizia erano proseguiti per tutto il giorno; nella totale anarchia che regnava indisturbata, la calca inferocita aveva preso d’assalto le caserme con una violenza esasperata. Era il caos generale.
Privata oramai di tutto, quella gente non era più neppure libera di festeggiare la fine del mese sacro; gli abitanti erano così insorti rabbiosi contro il governo fantoccio, incolpando quei maledetti burocrati al potere di non aver saputo difendere, ancora una volta, un popolo ridotto allo stremo, divenuto solo carne da macello.
La sommossa cittadina, in preda a un’euforica isteria collettiva, era quindi divenuta inarrestabile, osteggiata dai lacrimogeni e dai manganelli di guardie armate che si proteggevano dagli assalti. Come tristemente prevedibile, era di gran lunga peggiorata la straziante angoscia in cui erano sprofondati gli abitanti del quartiere di Karrada sommerso da grida isteriche, provenienti da ogni direzione. Invano, genitori disperati avevano continuato a scavare a mani nude, tra montagne di macerie per tutto il giorno, alla ricerca dei propri figli. Di tanto in tanto corpi orrendamente mutilati, senza vita e irriconoscibili, apparivano dal nulla. Tutto intorno aleggiava soltanto il tanfo letale della morte.
Il messaggio dell’attentato, consegnato alle autorità e alla popolazione di Baghdad, attraverso quei giganteschi boati e senza alcun velo di mistero, era stato più che cristallino: tremila chili d’esplosivo per trasmettere un segnale inequivocabile, al cuore della capitale irachena. Colpire ovunque e mietere il maggior numero di vittime possibili. Era stato l’attacco più sanguinoso che il Paese avesse subìto negli ultimi due anni e nessuno mai avrebbe potuto sostenere il contrario.
Una delirante rivendicazione venne rilasciata attraverso un sito internet, gestito dai miliziani del califfato, a un’ora dal devastante scoppio di un secondo ordigno esploso, appena fuori Baghdad, che aveva fatto eco al primo spaventoso attacco. Per le necessità del racconto di questa storia, bisognerà meglio descrivere come andarono esattamente le cose a Shabah, dentro e fuori le mura di uno dei più imponenti presidi militari dell’intero Paese.
Al checkpoint SA-17AN, nel campo di addestramento iracheno Tadrib Al Jhady, si era materializzato l’inferno sulla terra. Non era rimasto più nulla e niente più aveva forma.
Le due torri di guardia, ai lati della possente recinzione del grande ingresso, erano crollate come castelli di sabbia, lasciando un orizzonte di pietose macerie fumanti. I cordoli di cemento nell’asfalto fuso s’erano disintegrati, frammentandosi in particelle minuscole, disperdendosi poi solitari nell’aria, quasi fossero stati coriandoli. Dei quattro mezzi blindati, intrappolati all’interno del cratere, erano rimasti solo avanzi di ferraglia incandescente dalla quale s’innalzava struggente il lamento della morte. Un urlo disperato scuoteva d’orrore l’onda di fuoco che si ingigantiva a ogni alito di vento.
Quei vecchi corazzati si erano accartocciati, abbandonando nell’aria un rumore sinistro, mescolandosi, poi, a quello più stridulo delle lamiere, le stesse che avevano ridotto a brandelli i corpi dei giovani militari, rimasti intrappolati dentro quelle bare di metallo. Qualunque cosa, intorno al raggio di quel turbine infuocato, era schizzata via con la stessa rapidità di un fulmine.
L’odore acre della benzina e del fumo denso, più simile alla pece, si era impadronito in fretta dei polmoni dei sopravvissuti che si attorcigliavano sulla nuda terra, come vermi. La marea ardente e le mostruose fiamme avevano incenerito tutto, senza alcuna cortesia, senza nemmeno chiedere permesso.
Il sangue dei cadaveri era evaporato a causa dell’arsura opprimente, lasciando solo un lezzo dolciastro che saturava ogni molecola nell’aria. Coloro a cui la morte aveva risparmiato il tempo, gridavano come impazziti per le impressionanti ustioni che ricoprivano i loro corpi. Per il Profeta, erano davvero irriconoscibili, simili a mostruose maschere intagliate sulle possenti colonne di Ahwar. La carne si scioglieva loro addosso, erano deformi, non avevano più niente che li identificasse come esseri umani. Quel che rimaneva delle loro misere uniformi era appiccicato ai tessuti dei muscoli, quasi come un altro sottile lembo di nulla.
Due militari poco più che adolescenti, risparmiati dalla deflagrazione, si muovevano in circolo scioccati e inebetiti, i loro sguardi perduti sul confine dell’orrore. Non avevano ancora compreso cosa fosse davvero accaduto. Nei loro occhi grigi si era perduta, forse per sempre, l’espressione della vita stessa. Resti smembrati di uomini, troppo in fretta cresciuti, scivolati nell’oblio di quella raccapricciante fine, marchiavano l’area dappertutto.
Quasi tutti irriconoscibili, quasi tutti devastati e dilaniati, erano divenuti solo ombre imperfette; avanzi di corpi che s’affacciavano, adagio, dalle coltri dense di polveri nere.
Sulla linea sfocata dell’orizzonte era emerso un ammasso di carne fumante, senza più forma alcuna; un busto carbonizzato con la testa incenerita e le braccia ridotte a tronchetti mozzati, ancora avvolti dalle fiamme. A meno di due metri, proprio innanzi il tratto oscuro della nube, sporgeva alla pietà un altro miscuglio incendiato, rovesciato a pancia in giù, fiondato sulla ferraglia rossa, divenuta ormai rovente. Ciò che sembrava essere stato il suo volto, tanto era sfigurato, si era sciolto in un tutt’uno addosso alla portiera curvata e scurita di un blindato. Dieci passi avanti, al diradarsi della caligine fatale, uno scarpone lacerato su un sasso piatto lasciava scorgere un piede mozzato di netto e, più avanti, sul fianco sinistro, altri due corpi esanimi avevano assunto una forma talmente innaturale che offendeva persino la vista. Erano rimasti raggomitolati su loro stessi e nessuno più sulla faccia della Terra avrebbe potuto distinguere un corpo dall’altro, tanto si erano liquefatti, che parevano essere un solo mostruoso ammasso mitologico. Ovunque gli occhi si posassero, brandelli di resti umani affioravano ora dalla polvere, ora da bugni di ferro minacciosi e incandescenti.
Il sole alto nel cielo faceva capolino con i suoi raggi, trafiggendo le fitte nuvole, nere corvino; le fiammate ancora vive di un arancione accecante, mutavano a intervalli regolari in rosso scuro come il sangue e poi in un giallo acceso, simile allo scintillio dell’oro. Lo spazio intorno si era tramutato in una prolifica colonia di serpenti arroventati, in uno sciame di lingue di fuoco proveniente dagli inferi, le quali convogliavano tutte in una spaventosa raggiera di tetre sfumature. Erano soltanto riflessi deformi della luce che, in quegli osceni frangenti, parevano non avere più significato alcuno.
E poi quel silenzio, un silenzio innaturale che intrappolava nella sua invisibile ragnatela tutti i suoni provenienti dalla morte: dallo scoppiettio acerbo delle fiamme, che ingurgitavano ogni cosa, al frastornato vociare saturo di lamenti dei rimasti in vita, finanche ai sospiri alternati dei venti del sud che vestivano il calpestio di passi incerti e trascinati. Ora a destra, poi a sinistra.
In un attimo tutto era parso fermarsi. Non c’era più tempo e non c’era più spazio, soprattutto non si distingueva più alcuna ombra del rumore.
Incredibilmente, soltanto una cosa nel raggio di cento metri era rimasta pressoché indenne, rimarcando, tra la devastazione generale, la propria posizione.
Da qui, i fatti che seguirono mossero tutti quanti oltre la coerente logica del mondo, lontani dall’intelletto degli umani, nella quale ogni ragionevole evidenza veniva meno per sconfinare e trovar dimora, solo, nel dubbio e nel tormento. Qualunque presumibile ragione sarebbe stata obbligata a lasciar posto all’inquietudine, all’incertezza e alla follia degli eventi che sarebbero, crudelmente, seguiti di lì in poi.
Ciò che il sipario aperto su così tanto macabro orrore aveva mostrato, non poteva di certo considerarsi una vicenda spiegabile dopo quell’inaudita violenza. Un qualcosa di assurdo e misterioso era accaduto in quel ciglio di strada ridotta, ormai, a un’accozzaglia di macerie polverose sparse ovunque, rottami ferrosi e pezzi di carne umana liquefatti.
Era un passeggino bianco che se ne stava ancora ritto e immobile, flettendo la sua ombra obliquamente verso il basso, creando un disegno simmetrico, generato dal caos del momento. Mostrava alla vista solo il fievole movimento dei fronzoli di una copertina di lino beige che, al sibilare del vento, alternava per i due lati il suo danzare.
Come c’era finito lì? E, se era lì, cosa ne era stato della creatura che ospitava? Dov’era sua madre?
Le risposte arrivarono in fretta, ciniche e pietose al tempo stesso.
Il vento caldo, intanto, seguitava a soffiare più forte, ululando ora verso il cielo, ora verso terra i suoi aliti struggenti. Quasi si fosse fatto carico di tutta quella distruzione, comparsa senza alcun preavviso, con un’altra prepotente raffica sollevò una lamiera ondulata e tra la sabbia, sull’asfalto bollente, emerse, alla vista e alla pietà, una figura umana.
Era una donna piccola e magra, immobile, tesa e rigida che conservava ancora le braccia flesse sul petto. Alla gola, una scheggia di metallo appuntita l’aveva trafitta da parte a parte.
Nemmeno una goccia di sangue era più rimasta nel suo corpo, tanto era pallida e cerea. Il velo dai suoi capelli era scomparso, lasciandoli in balìa degli spifferi nervosi. Il vestito nero era sgualcito ed era rimasta scalza. Gli occhi, uno verde e l’altro marrone, erano ancora aperti. Nonostante i lineamenti aggraziati, sul suo viso era comparsa una smorfia di dolore che le storceva le labbra dischiuse. La sorpresa della sopraggiunta morte e la paura scalfita sul volto confezionavano un ulteriore quanto impietoso macabro scenario.
E poi, a un tratto, un braccio insanguinato si sollevò da terra.
A tre metri dal corpo della donna, sotto un cumulo imponente di rovine, un uomo con la mimetica a brandelli si mosse di scatto, risorgendo dalle proprie ceneri, come l’Araba Fenice. Con occhi di demone strisciava al pari di un verme, lasciandosi dietro solo un solco insanguinato e i suoi lamenti infernali. Un verme, niente di più.
La faccia era una maschera lacerata, stravolta nell’espressione e con indosso tutti i segni della disperazione. Gli spasmi gli assalivano, senza rimorsi di pietà, il corpo, tanto si storceva, e dalla bocca scatarrava grumi di polvere impastata a gocce di liquido rossastro che sfuggiva, di prepotenza, dalle sue vene. L’altro braccio, quello destro, era rimasto a fianco del corpo, immobile. Gli era stata recisa la mano, tranciata di netto da un frammento di ferro allo scoppio dell’ordigno, lasciandogli le ossa spezzate e le carni nude, sanguinanti all’altezza del polso. Inchiodando le punte dei piedi sull’asfalto rovente, quell’avanzo d’uomo trovò più forza nelle gambe per trascinarsi in avanti e raggiungere quel passeggino.
Il suo sguardo, inondato da lacrime di sangue e sudore gelido, scrutava l’orizzonte incerto attraverso un velo opaco, caduto sugli occhi bruciati dal sole e raggiunti, poi, dai molesti vapori di benzina, sospesi nell’aria stantia.
Il peso dell’ignoto aveva sbiancato i tratti della sua faccia, lasciando scorgere striature rossastre che gli deformavano orribilmente l’espressione; i denti stridevano incontrollabili per l’insopportabile dolore, fin quando sfinito s’arrese con il viso nella polvere. Sputò di nuovo e l’ennesimo conato gli lacerò, senza misericordia alcuna, ogni centimetro del corpo martoriato. Si rialzò come un ossesso e riprese a muoversi fin quando non la vide emergere, alla vista, in tutta la sua miserevole condizione.
Deviò, allora, dal percorso, scortato soltanto dagli insopportabili lamenti di coloro che stavano per dire addio alla vita, mentre una cascata di gocciole copiose scivolava lesta e silenziosa, inondandogli i confini degli zigomi.
«Hamìda, Hamìda,» sussurrò con un filo di voce, poi allungò la mano tremante verso il capo della donna, sfiorandole con i polpastrelli insanguinati una morbida ciocca. Il profumo delicato dei suoi capelli danzava ancora nell’aria. Fece per sollevarsi da terra quando un dolore nuovo gli squarciò la schiena. Indirizzò un urlo disumano contro il cielo, maledicendo chiunque l’avesse abitato. Conficcate nell’uniforme bruciata e dentro le carni, l’uomo era divenuto un bersaglio troppo esposto per una legione di schegge che si erano piantate nel collo, sulla schiena e nelle gambe, lasciandolo trafitto e sofferente. Ripiegò dal dolore, si avvicinò, quasi, senza più forze alla donna, guardò nei suoi occhi e solo allora capì che era davvero morta. Trasalì dalla disperazione, imprecando così forte che quel cielo si oscurò. Tutti i suoi demoni erano ricomparsi all’improvviso, aggrappandosi all’anima devastata, con artigli taglienti ancorati nella carne viva.
Passarono inesorabili i secondi, e passarono più crudeli i minuti; l’adrenalina in corpo aveva solo in parte attenuato i dolori delle ferite, ma nulla avrebbe potuto placare né la rabbia, né lo sgomento che s’erano levati alla vista dell’immagine, riprovevole, della donna. I suoi occhi, privati d’ogni compromesso, patteggiarono in un istante il rifiuto di accogliere quel devastante presente, disposto a consegnargli un maledetto lasciapassare affinché varcasse, indisturbato, i cancelli della pazzia.
Nello sguardo assente dell’uomo, perduto nell’inferno che gli si stava spalancando innanzi, s’era insediata una precisa negazione che annientava ogni residuo di speranza, palesandosi, senza sforzo, dentro quell’oscena realtà. In quale modo desiderasse fuggire da quell’orrore sembrava essere una faccenda assolutamente inspiegabile; certo era che il monco volesse sottrarsi, prima possibile, dallo spaventoso teatro di morte che sorgeva tra la sterminata mole di macerie fumanti, nella quale brandelli di carne squartata erano sparsi ovunque.
In silenzio, l’uomo cercò di orientarsi nella desolazione che gli si stava presentando innanzi, come se cercasse di trovare una via d’uscita da quell’abisso di sofferenza e di terrore. La disperazione si insinuò, allora, nella sua anima dannata, rendendolo perdutamente consapevole del dramma nel quale era precipitato e, in quel momento, si rese conto di quanto fosse fragile la sua esistenza, di quanto poco contasse davanti all’energia distruttiva che scorgeva di fronte ai suoi occhi neri. Un fardello troppo grande per essere trascinato, sopportato.
Ciò nonostante, doveva trovare un modo per salvarsi, per uscire da quel diluvio di sangue e di morte. E così, con una forza disperata, iniziò a cercare una via di fuga, attraversando quel labirinto di macerie per inseguire un’ultima ragione per sopravvivere. Al suo fianco, ancora, Hamìda, che era morta senza nemmeno sapere perché, lasciandolo da solo per sempre, nel precipizio che anticipava un vuoto eterno e purtroppo profondissimo.
Fu assalito da una fitta allo stomaco, la rabbia che lo accecava ebbe il sopravvento sul dolore; riconobbe, repentino, l’ennesimo spasmo ad attorcigliargli le budella. Ripiombò privo di sensi con la faccia a terra per un tempo che parve lunghissimo, immerso ancora nel suo stesso sangue. Sobbalzò poi allo strepito delle sirene della mezza luna e dei getti assordanti degli idranti, scagliati contro le fiamme vive.
Un vociare confuso e isterico lo ridestò. Dalla sua posizione supina, con la testa appoggiata ancora sul pietrisco, riusciva a malapena a scorgere le gambe dei soccorritori che si dimenavano svelti tra le macerie e la ferraglia, sperando di trovare in vita qualche anima. Le barelle erano rimaste adagiate per terra e quegli angeli improvvisati, con le loro facce più incredule che atterrite, scavavano instancabilmente usando perfino le nude mani, estraendo dalle rovine, ogni tanto, qualcuno o qualcosa.
Era un panorama spaventoso che, allo scandire inesorabile dei battiti del tempo, diveniva sempre più ributtante. Il militare, allora, si allontanò rassegnato dal corpo esanime della donna, strisciando per un’altra direzione, quasi a voler cancellare per sempre quella visione che gli aveva prosciugato ogni goccia di linfa dell’anima.
Sì, era tutto vero. Erano gli incubi di una vita intera vissuta per non farsi ammazzare come un cane, ma che adesso, arroganti e fuori tempo, si erano affacciati al suo cospetto, divenendo parte di un’entità reale. Solo per uno scherzo del destino irriverente lui non era morto, ma quei pazzi che avevano fatto esplodere l’ordigno all’interno del campo militare, si erano portati via per sempre la scia luminosa della sua stessa vita, l’unico fiore che germogliava tra le dune del deserto, il cielo azzurro che avrebbe dominato perfino le profondità della notte, ma non l’inganno della morte: sua moglie Hamìda.
E come sempre, quando il male si mostrava in quel modo al mondo, lo faceva d’abitudine spostando grandi armate e perciò, quant’era già successo, non era ancora abbastanza.
Con le ultime energie rimaste in corpo, sempre più debole e confuso, quasi sull’orlo di svenire, riprese a strisciare incontro al passeggino bianco. Era una distanza breve che gli parve, però, interminabile. Alternava momenti di lucidità ad attimi di follia e disperazione. E così, iniziò a pregare. A pregare e a illudersi. A ogni strattone con i gomiti in avanti, corrispondeva un’invocazione al suo Dio, Allah il Misericordioso. Sperava in cuor suo. Sperava e pregava come mai aveva fatto prima.
Arrivò dapprima a sfiorarlo, poi con un’altra spinta, finalmente, l’afferrò. Si sollevò allora sulle ginocchia, serrando i denti per il dolore struggente che acutissimo gli tolse il fiato. Infine, vi guardò dentro e, in quello stesso momento, un vento crudele gli graffiò un volto che sembrava non fosse più il suo.
«No. Dov’è? Dov’è?» mormorò pallidissimo, scivolando di corsa nella sua dannazione, in una manifestazione di assordante disperazione, sempre più spiacevole, di certo comprensibile.
Furono quelle le ultime parole prima di collassare a terra privo di sensi, nel pozzo senza fondo dell’angoscia, circondato soltanto dall’oblio e da un esercito invasato di demoni scatenati, pronti a trascinarlo, ancora una volta, in una tremenda e sconosciuta oscurità.
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