“Cella 34” di Antonio Giugliano
Leggi i primi 3 capitoli del romanzo drammatico, crudo e intenso di Antonio Giugliano, in uscita il 4 febbraio.
1
Il suono della sveglia mi sbalza di colpo nel mondo dei vivi, anche se speravo proprio di non alzarmi più. Sono le 08:30 di sabato 27 luglio 2019 e mia moglie è in vacanza da una settimana a Orbetello con i ragazzini. Non la sento da ieri mattina.
Faccio il suo numero, è spento, starà dormendo o si sarà scaricata la batteria, e così provo a chiamare mia figlia più grande: il telefono squilla, non risponde, non posso farci niente e allora lascio un messaggio alla madre.
«Amore, chiamami appena ti svegli.»
Mi giro su un fianco, poi sull’altro, poi a pancia sotto e infine sulla schiena.
Mi sveglio, finalmente.
Beh, finalmente un corno, adesso che mi rendo conto di dove sono.
In una cella d’isolamento, in galera, ho tentato il suicidio per la terza volta giovedì scorso e mia moglie non si alzerà dalla bara, né io telefonerò più a mia figlia grande o chiederò degli altri due più piccoli. Tre anni e mezzo fa mi hanno accusato di averli ammazzati tutti e quattro, e mi hanno pure giudicato colpevole.
Ma non avevano neanche una prova.
Non me lo meritavo di essere rinchiuso in questo psicopatico delirio reclusorio. L’ho gridato ai giudici, ai cancellieri e ai poliziotti che stavano a sdrumare la mia vita; l’ho urlato in faccia al portone del tribunale, alle manette, alle pareti di questa prigione vergognosa che mi sta paralizzando le funzioni dei quattro lobi cerebrali, ai compagni di sventura che si sono convinti che non c’entro però devono pensare ai guai loro; l’ho sussurrato ai cancelli di ferro che cigolano nei corridoi infiniti, ai passi perduti degli scarponi delle guardie che battono le suole sulle piastrelle stanche, l’ho confidato alle grosse chiavi di ottone che stridono nelle serrature a ogni ora del giorno e della notte e perfino ai muraglioni del cortile dell’ora d’aria quando il sole di agosto assecca la gola, l’ho implorato nella disperazione dei diluvi novembrini che rattristano l’anima già nera e ti lasciano a marcire senza forze, buttato sopra al materasso come una fune fradicia per mezzo della quale nessuna nave attracca più; e se ne sta lontano dall’imbarco che mi avrebbe dovuto condurre verso miraggi oramai sempre più impossibili e lontani, in attesa che arrivi il camion del monnezzaro estremo, e via alla discarica definitiva.
Niente da fare, nessuno mi ha voluto dare udienza.
Sono sicuro che nemmeno il mio avvocato mi ha creduto.
I secondini hanno installato una telecamera per impedirmi di ritentare la via verso il Nulla per l’eternità e ora sono controllato a vista H24. Il che significa pure quando sto accovacciato sulla turca.
Le celle hanno tutte una finestra in alto con l’inferriata e sono chiuse da una porta fatta da una doppia lamiera di ferro davanti alla quale, guardando da dentro, c’è un cancello. Di giorno aprono la porta per dare uno sfogo d’aria al soprannumero di bestie negli stabbi: dove dovrebbero starcene due ci abitano in quattro o cinque, e dove invece quattro ce ne stanno otto o dieci.
La mia gabbia, con un solo letto, resta invece serrata giorno e notte. Avrebbero potuto lasciarmi morire visto che stavo già con un piede nell’aldilà. Ipocriti.
Ero riuscito a fregare il tizio dell’infermeria; gli avevo rubato una boccettina intera di Valium che teneva nell’armadietto. L’anta era aperta e non se n’è accorto. In cella, per conto mio, da novembre tenevo nascosta sotto il materasso una bottiglietta di sciroppo alla codeina piena più della metà. Così ho fatto un mix letale e mi sono bevuto tutto in un fiato.
Dopo una decina di minuti i compagni di cella hanno sentito il respiro che mi gorgogliava dai bronchi su fino alla gola. Parevi una fumarola grippata della Solfatara, hanno detto, e subito hanno chiamato le guardie. Così mi hanno salvato. Ipocriti.
È mercoledì.
Stamattina visita dallo psicologo. Il dottore ha tentato di farmi parlare, per farti sfogare, ha detto. Ma di che? Io non ho niente da dire, me ne voglio andare da questo mondo e basta.
Il fatto è che con la scusa della perizia psichiatrica già mi hanno fottuto in tribunale: quando mi hanno arrestato ero strafatto di metanfetamine e tre spini di marijuana mista a shit, ma non mi hanno concesso nessuna attenuante, nemmeno la seminfermità mentale. Hanno sentenziato che avevo programmato ogni dettaglio e mi ero drogato dopo il delitto solo per crearmi un alibi. E poi i giornali e la televisione… anche loro hanno avuto un peso nella decisione dei giudici: avevano montato troppo il caso perché potessi sperare in una qualche clemenza.
Personalità proteiforme e disturbata, paranoica, astuta, capace di doppio e finanche triplo gioco, ha specificato il consulente tecnico del tribunale, cioè un dottore del cervello, nella sua perizia tecnica d’ufficio.
E così una truffa non riuscita, quella delle droghe, hanno scritto e detto i Media, e mi hanno sbranato. Risultato? Ergastolo con isolamento diurno per il primo anno. Per l’efferatezza del crimine e l’innocenza delle vittime. Il più piccolo aveva cinque anni.
Una condanna esemplare.
Ma io mi chiedo: non sarebbe stata meglio la ghigliottina? No, eh, noi siamo civili, abbiamo bisogno che il mostro resti vivo. Ma in gabbia. A vita. Che sia da monito il King Kong.
Così ho mandato affanculo l’avvocato che mi aveva chiesto di presentare appello per tentare di scendere almeno a trent’anni, visto che ero incensurato. Che con la buona condotta e premi vari sarebbero potuti diventare venti, forse anche sedici.
Però già mentre facevo avanti e indietro dalla cella al tribunale riflettevo sullo scopo che mi sarebbe rimasto per vivere, ovvero la speranza di uscire da qui a sessantanove anni o settanta, ammesso che tutto fosse andato di liscio. Non c’è niente di più meschino che vivere con la speranza. Vuoi rendere un individuo schiavo? Nutrilo a pane e speranza. Magari presto il Papa se ne andrà al diavolo, ci sarà un’amnistia e il gioco è fatto.
Subito dopo la sentenza, quando il legale mi ha ripetuto per la miliardesima volta la canzone dello sconto di pena, ho fissato la sua faccia bollita da leguleio bene ingrassato da vent’anni di onorata carriera e ho capito che in realtà, del mio destino, gliene fotte meno che di uno scarrafone abbrustolito nell’incendio estivo di una pineta a mare: il suo l’ha fatto, la sua coscienza è a posto e via con Dio.
Mi sono girato a dare un’occhiata disperata alla guardia per chiedergli un minuto di respiro ancora, prima che mi piazzasse in via definitiva gli schiavettoni ai polsi, con la consapevolezza che non avrà nessun significato tornare a vivere in un mondo che tra quindici o vent’anni sarà diventato un altro, considerata la velocità con cui stanno cambiando le cose. Magari a quell’epoca i robot si accoppieranno tra di loro e avranno sostituito anche le commesse nei supermercati con i loro fottuti processori impiantati nel midollo cervicale, che ti comandano a colpi di bip. Un mondo di chip. Il nuovo ordine mondiale.
E io sarò un mammuth dentro una cristalliera.
Grazie, ma non fa per me, caro avvocato, gli ho detto. Non voglio nessuno sconto della pena. O assolto o niente, perché non c’entro. Mi hanno condannato? E allora sto bene qui, a spese dello Stato. La società civile mi mantiene e io mangio, caco e dormo. E non produco.
Chi è che ha scritto quella storia che il carcere deve rieducare? Un comico?
Di certo non qualcuno che sia stato in una galera italiana con otto persone dentro una cella in cui, se già stessimo soltanto in due e non fossimo le bestie che siamo, ci sbraneremmo sulla branda, soffocati dalle convulsioni per la mancanza d’aria e l’isteria.
E allora mi sta bene così. Caco, mangio e dormo. E quando dormo, sogno. E se non dormo, penso.
2
Mi ricordo quando conobbi mia moglie, Cetty. Fu alla festa di compleanno di un amico mio. Lei era amica della sua fidanzata ma non ci eravamo mai incontrati prima. A me piacque subito però fu un casino tale, quella sera, che la persi di vista nonostante mi fossi messo a cercarla dappertutto. Ero troppo ubriaco e non la trovai da nessuna parte, ma fu un bene perché sbronzo com’ero le avrei fatto di sicuro una cattiva impressione.
La volta successiva fu epica, a una festa di carnevale. Io mi ero vestito normale, avevo messo su solo una maschera da zombie. Lei invece si era vestita da hawaiana, cioè, nonostante il freddo, aveva addosso solo un gonnellino di fili intrecciati e due noci di cocco. Eravamo arrivati in contemporanea accanto al tavolo delle bibite: lei si versò un bicchiere di sangria, io le chiesi se faceva lo stesso per me.
Lei sorrise, con gli occhi che le risplendevano nei suoi ventiquattro anni, e allora mi tolsi la maschera e fui diretto:
«Ma dove ti posso portare vestita così? Solo a casa mia!» Lei mi guardò divertita e fu sfrontata quanto me.
«Perché no?»
Così svicolammo a casa. Dopo tre mesi ci sposammo e andammo in viaggio di nozze negli Stati Uniti per tre settimane, coast to coast per tutto il sud, in treno e in pullman, come dei veri americani quando hanno tempo da perdere e allora evitano gli aerei. New York, Miami, Tampa, Memphis, New Orleans, Houston, fino a Los Angeles. Facemmo l’amore dappertutto, sulle scale, negli ascensori, una volta pure nella toilette di un ristorante di lusso.
E dopo nove mesi nacque la nostra prima figlia, Alessia.
Eravamo una famiglia felice, io e mia moglie innamoratissimi fino all’ultimo istante, sempre, sempre, sempre. Adoravo i miei bambini e ancora non riesco a capire come abbiano fatto a condannarmi per averli uccisi. Ma siamo pazzi? Ma il mondo si è capovolto? Ma avete una selce al posto del cuore?
3
Questo è un covile di spie. Avevo promesso dei soldi a chi mi avesse ammazzato a coltellate, ovvero scannato, preferivo così. Il venti per cento anticipato e il resto a fatto compiuto. Cinquemila euro, che sono tutto quello che ho su un libretto postale gestito dal mio avvocato. Volevo provare l’ultima ebbrezza, cioè morire per mancanza d’aria. Chissà quanto dev’essere atroce, avevo pensato: il corpo che vuole vivere e il cervello che si auto fagocita. A quel punto i neuroni si sfanno e la mancanza d’ossigeno schiatta le sinapsi a tutta forza. Come i pesci che si dimenano fuori dall’acqua. Magari uno si caca pure sotto, e non è mica una metafora: i muscoli si rilassano, gli sfinteri cedono e fuoriescono piscio e merda. Ciò che era vivo e pulsante diventa materia inerte in un istante.
Ognuno la dovrebbe proprio fare un’esperienza di premorte durante la propria vita, sai quante cose cambierebbero? L’interruttore si brucia, la luce scompare e tutto diventa buio. Uno shock.
Per chi non ritorna in vita, in poche ore i batteri cominciano a fare il loro mestiere e il corpo si decompone da dentro, già prima che qualcuno se ne accorga. Il lavoro dei vermi inizia dai batteri nelle viscere. La nuova vita comincia così.
Con quegli infami avevo fatto un patto: mille euro anticipati e il resto glieli avrei lasciati in eredità. Avevo pure scritto il testamento. Fortuna che non ci avevo ancora messo il nome degli eredi.
Si sono beccati l’anticipo e poi sono corsi a raccontare il fatto ai guardi, li chiamiamo così i sorveglianti, quando stiamo tra di noi.
Risultato? Gli agenti di custodia mi hanno trascinato in una cella senza gabinetto al piano interrato e mi hanno massacrato. Calci, pugni e manganellate.
Così impari pezzo di merda, a noi non ci freghi, gridavano.
Mi hanno tenuto là sotto per un mese. Pisciavo sulle pareti e cacavo sul pavimento. Vabbè, cacavo si fa per dire. Non la mangiavo mica la sbobba che mi portavano. Che poi chissà cosa ci avevano messo dentro, insieme a sputi o piscio o merda di topo.
La prima cosa che ho visto dopo che sono risalito alla luce è stata l’infermeria. Prima però mi hanno lavato con la pompa dell’acqua gelata. Dovevo presentarmi pulito e rivestito alla visita medica, con mille euro in meno ma vivo, e sono stato così scemo che non solo ho capito il punto di vista dei miei torturatori ma l’ho pure approvato.
Così si fa una cosa fatta bene, pensavo, che se non la fai bene è meglio che non ti metti proprio in mezzo.
L’infermiere, un altro della cricca degli infami, appena ha visto la mia faccia ingiallita dai lividi che si stavano asciugando si è messo a ridere.
«Che cazzo hai combinato, Sastiano?»
«Sono caduto dalle scale.»
«Seh, vabbuoʼ.»
Mi sono piazzato sulla bilancia però prima gli ho chiesto il permesso, perché non sai mai come la può prendere un verme come quello. Nemmeno ti fa rapporto, basta che lo dice al Superiore (così noi detenuti dobbiamo chiamare i guardi, quando ci rivolgiamo a loro) e sono altre mazzate, ma io per ora ho fatto il pieno.
Risultato: sono dimagrito quasi otto chili e mezzo.
Che già prima non è che avessi poi così tanto grasso spalmato sulle ossa.
Il paramedico mi ha dato delle pillole che ha preso da certi vasetti che tiene sulla scrivania e le ha messe in una bustina, rosse e verdi: le rosse, antidepressivi; le altre, vitamine, ha detto. Però quando sono tornato nel mio nuovo cubicolo da single che mi avevano allestito le ho subito buttate dentro il cesso. Col cavolo le vitamine.
Prenditele tu: a me o nella confezione sigillata o niente. Non mi fido di nessuno. L’ho imparato sulla mia pelle. Tardi, è vero, ma non lo è mai troppo finché respiri. Sarebbe una beffa insopportabile spiccare il volo verso il nulla non per mia volontà. Quello lo devo decidere io.
Io soltanto.
Però poi ci ho riflettuto e chissà che questa cosa del decidere del mio destino finale non sia un altro stupido modo di dire e di pensare, per consolarmi dell’abisso rovinoso che è diventata la mia vita. Tardi o presto, che sia io o un altro a decidere per me alla fine del mio conto estremo, che importa?
Un naufragio così grande non me lo potevo nemmeno immaginare.
Però devo ammettere che io ci sarei stato pure altri tre mesi nella cella là sotto. Almeno non dovevo dar conto a nessuno, perché la vita qua dentro se non l’hai provata non la puoi capire.
Brutale, dicono quelli che stanno fuori. Ma questo è un aggettivo che calza bene solo addosso a chi non ne ha idea. E in effetti, a voler essere precisi, ho imparato facendo un confronto con la mia esistenza di prima, che davvero brutale è la cosiddetta vita normale che fa la gente libera.
Insomma, libera si fa per dire.
La gente fuori non si rende conto di quanto sia fottuta fino al buco del culo. L’eterna ricerca dei soldi che sono:
A) L’unica cosa che conta.
E:
B) Sempre troppo pochi, maledetti e troppo pochi.
Il lavoro, la famiglia, la televisione, la partita di pallone, Internet, la Bandiera, in primis. E poi i sentimenti, il sesso rubacchiato qua e là e, quando capita, le corna. Il brivido dell’avventura, dicono, ma quale avventura? Una tempesta in un bicchiere.
E ancora: il cancro o altre malattie, le cure, le bollette, le due settimane di vacanze d’estate se va bene, il prezzo del petrolio, il gas metano, la cultura, l’ecologia, la solidarietà, vivere in città, al mare o in montagna, in campagna, i panorami sul lago, i tramonti, l’alba, i preti, i dottori, i compagni, il papa, il funerale, il sangue sperso di Cristo e tutto il resto della grande truffa universale. La gente se ne va a morire senza aver manco intuito che grande fraintendimento ha vissuto in questa sua schiavitù.
Qua dentro non è così: fuori ti fottono, qui sei stato fottuto. Tra presente e passato c’è una bella differenza. E una volta che ci sei entrato a vita ci fai la spesa a caro prezzo: sei oltre la brutalità, ovvero sei oltre qualsiasi aggettivo peggiorativo. Qua dentro stai all’inferno.
E non c’è neanche il bidet.
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