Leggi il prologo di “Manson – La vita e i tempi di Charles Manson”
Manson – La vita e i tempi di Charles Manson, di Jeff Guinn.
Il passeggino bianco
Prologo – CHARLIE AL WHISKY
In una notte d’estate del 1968, tre auto percorrevano il Sunset Boulevard a Los Angeles, dirette verso la zona lussuosa della lunga strada tortuosa conosciuta come la Strip, un tratto di 1,7 miglia di locali notturni, negozi e ristoranti, considerata uno degli epicentri della controcultura d’avanguardia in America. Trecentottanta miglia a nord, il quartiere di Haight-Ashbury di San Francisco si aggrappava ancora alla sua reputazione di capitale del Flower Power, il “potere dei fiori”, e dei raduni hippy, ma le sue pretese di guidare il mondo in una nuova era illuminata attraverso ottima musica, l’amore libero, sostanze chimiche che aprivano la mente e il disprezzo per le convinzioni capitalistiche e classiste si stavano dissolvendo nella violenza ottenebrata dalle droghe. Anche a Sunset Strip c’erano musica, sesso e droga, ma pochi tra le masse eccitate che affollavano i suoi marciapiedi fingevano che le loro motivazioni fossero diverse dall’abbandonarsi al vizio. Mentre il resto dell’America era in preda a disordini civili in risposta al Vietnam e alle tensioni razziali, l’unica grande rivolta sulla Strip riguardò la chiusura di un club popolare e l’imposizione del coprifuoco alle 22.00 per i minori di 18 anni. I giovani affollavano la Haight nella speranza di trovare Utopia: i pellegrini arrivavano a Los Angeles con il sogno di diventare amici delle celebrità e divenire loro stessi ricchi e famosi. Questi sogni erano incoraggiati dal tradizionale egualitarismo della Strip. Ci si aspettava che le star che frequentavano molti dei suoi famosi club o vi si esibivano si mescolassero con il pubblico, chiacchierassero amabilmente come se fossero dei loro pari e, se avevano sfondato nel mondo discografico, offrissero consigli all’infinito flusso di aspiranti musicisti convinti che le loro canzoni sull’amore, la spiritualità e la rivoluzione li avrebbero resi grandi come i Beatles o anche di più.
I giovani dietro il volante delle tre auto che scendevano piano il Sunset Boulevard – a volte ci volevano ore per destreggiarsi nel traffico e nella folla della Strip – erano in giro per una notte di divertimento e per godersi la celebrità che avevano raggiunto dopo aver lavorato tanto duramente. Terry Melcher, Gregg Jakobson e Dennis Wilson erano amici intimi da anni. Individualmente, avevano raggiunto l’apice nel mondo della musica: Melcher come produttore, Jakobson come talent scout/organizzatore di sessioni di registrazione e Wilson come batterista dei Beach Boys – quindi il più famoso del trio. Insieme facevano parte di un club informale noto come Golden Penetrators. L’appartenenza al circolo era limitata a chi avesse avuto rapporti sessuali con donne appartenenti alle famiglie più famose del mondo dello spettacolo. Non era un club particolarmente esclusivo; alcune di quelle donne erano promiscue quanto gli uomini che le corteggiavano. Il triumvirato Melcher-Jakobson-Wilson godeva del proprio edonismo; in una città che da tempo aveva perlopiù rinunciato a porre dei limiti morali o legali ai personaggi famosi, la loro filosofia era: “Siamo noi, non ci sono regole, possiamo farlo”.
Quando le celebrità di Los Angeles volevano mantenere discreta la loro presenza in città, frequentavano locali in cui le costose quote di iscrizione impedivano l’ingresso a tutti tranne che alle star più importanti. Ma quella sera Melcher, Jakobson e Wilson erano di umore socievole. Parte del divertimento di essere famosi consisteva nell’essere adulati dai fan, nel dimostrare un certo senso di noblesse oblige, sempre però mantenendo il controllo. C’era una notevole differenza tra l’accettare la deferenza di bella gente attratta dai VIP e l’essere assaliti da branchi di adolescenti sudici. I club a ingresso libero più popolari della Strip prevedevano accordi speciali per le star in visita, e di solito offrivano posti a sedere limitati, in modo che gli altri clienti potessero solo guardare da lontano quando le celebrità scendevano per un po’ dalla pista da ballo. Sia per le star che per il pubblico in generale, il ballo era una parte importante di una serata sulla Strip. Mentre gli artisti erano sul palco, era richiesta un’attenzione rispettosa. Ma tra un’esibizione e l’altra, i disc jockey mettevano la musica ed era il momento per tutti di mettersi in mostra, di ballare seguendo il ritmo cercando di surclassare gli altri nell’esecuzione di tutti i passi più recenti.
Come colossi della scena musicale di Los Angeles, Melcher, Jakobson e Wilson erano diretti verso una destinazione esclusiva sulla Strip. Situato sul Sunset appena oltre il confine di Beverly Hills, il Whisky a Go Go era il club più famoso della città e probabilmente di tutta l’America. Riviste come Time e Playboy lo dipingevano come il locale più alla moda in cui farsi notare. Ogni sera, lunghe code si estendevano per diversi isolati, anche più di due ore prima che il locale aprisse alle 20:30. Il costo del biglietto scoraggiava i poveracci e la marmaglia. I clienti abituali si aspettavano sempre emozioni superiori a quelle che si potevano provare in qualsiasi altro club della Strip. Al Whisky gli artisti registravano album dal vivo che conquistavano le classifiche. Il fior fiore della scena musicale si recava regolarmente al locale; tra i frequentatori recenti figuravano Jimi Hendrix, Neil Young ed Eric Clapton. Hendrix e Young salivano addirittura sul palco per sessioni improvvisate. Il Whisky di solito alternava band locali meno conosciute a grandi nomi come i Turtles ed Eric Burdon and the Animals. Il club era stato uno dei primi locali della Strip moderna a ospitare musicisti neri. Tra gli altri, avevano calcato il suo palcoscenico Buddy Guy e Sly and the Family Stone, e quando Little Richard si esibiva, le divinità del rock Mick Jagger e Keith Richards dei Rolling Stones andavano ad ascoltarlo. Ogni visita al Whisky era in qualche modo speciale. Chiunque a Los Angeles avesse la pretesa di essere cool doveva frequentarlo. Vi bazzicavano persino Elizabeth Taylor e Richard Burton.
La folla notturna faceva sì che fosse difficile parcheggiare nelle vicinanze, ma per Melcher, Jakobson e Wilson non era un problema. I gestori dei parcheggi della Strip trovavano sempre posto per le auto delle star. Melcher consegnò le chiavi di una Mercedes decappottabile nera a quattro porte. Jakobson arrivò a bordo di una Pontiac del 1939, nera e in ottime condizioni; aveva appena scambiato una Porsche con quell’auto d’epoca. Wilson arrivò in una Rolls-Royce bordeaux recentemente regalatagli dal fratello maggiore, Brian, il solitario leader dei Beach Boys. Quando il trio entrò al Whisky – non avevano bisogno di fare la fila, né di pagare il biglietto d’ingresso – tutti gli occhi puntarono su di loro. Wilson, un uomo alto e bello, sarebbe stato riconosciuto da quasi tutti gli appassionati di musica del Paese. Melcher e Jakobson non erano nomi noti al grande pubblico, ma la folla del Whisky, composta per la maggior parte da conoscitori della scena musicale di Los Angeles, sapeva chi erano e perché erano importanti.
Ciò non valeva per il quarto membro, che arrivò alla festa sulla Rolls di Wilson. Per gli astanti all’esterno del Whisky, non c’era nulla di speciale nel trentatreenne Charlie Manson; era solo uno delle migliaia di ambiziosi cantautori arrivati a Los Angeles con l’obiettivo di ottenere contratti discografici e diventare superstar. Era basso, circa un metro e sessanta, e pelle e ossa. Per gran parte dell’estate aveva avuto la fortuna di scroccare un posto dove stare al batterista dei Beach Boys, che era noto per concedere ai vagabondi l’uso temporaneo della sua lussuosa villa in stile rustico lungo il Sunset Boulevard. La maggior parte degli ospiti se ne andava dopo un giorno o due, ma Manson non mostrava alcun segno di volerlo fare. Per un po’ di tempo, andò bene anche al suo padrone di casa. Oltre a scrivere alcune canzoni interessanti e a declamare una forma di filosofia coinvolgente sulla rinuncia all’individualità, Manson aveva con sé un seguito di ragazze che lo adoravano ed erano felici di concedersi per qualsiasi atto sessuale desiderato dal suo benefattore rockstar. Di conseguenza, l’estate di Wilson era stata un tripudio di carnalità, anche se doveva recarsi spesso dal medico perché le ragazze di Manson continuavano a infettarlo con la gonorrea. Tra un’avventura sessuale e l’altra, Wilson promuoveva con generosità la musica di Manson agli altri Beach Boys e agli amici della scena musicale di Los Angeles. Fino a quel momento, nessuno era rimasto abbastanza colpito dalle sue canzoni da offrire al vagabondo trasandato il contratto discografico che desiderava. Ma Charlie credeva fermamente nel proprio talento e nella capacità, o addirittura nell’obbligo, di Wilson di farglielo ottenere.
Manson pensava di essere sempre il benvenuto quando Wilson si recava a una festa o in un club. Condivideva ciò che aveva: la musica, le conversazioni stravaganti e le donne sessualmente compiacenti, e si aspettava che Wilson facesse lo stesso. Ma era un accordo iniquo, e negli ultimi tempi Wilson si stava stufando. Era già abbastanza fastidioso che Manson lo tormentasse costantemente affinché i Beach Boys registrassero le sue canzoni, ma quella sanguisuga e le sue seguaci stavano intaccando notevolmente il suo patrimonio personale in un momento in cui le vendite dei dischi e l’affluenza ai concerti dei Beach Boys erano in allarmante declino. Avevano distrutto la sua Mercedes non assicurata e accumulato fatture da pagare da medici e dentisti. Avevano saccheggiato gli armadi di Wilson e tagliato i suoi vestiti per farne abiti patchwork. Pur promuovendo la pratica di setacciare i bidoni della spazzatura dei supermercati in cerca di cibo, svuotavano quotidianamente il frigorifero e la dispensa di Wilson. Ritenevano persino che i suoi conti aperti con i fornitori fossero di loro proprietà: quando era rimasto lontano da casa per una breve tournée dei Beach Boys, gli ospiti di Wilson avevano accumulato un conto di 800 dollari con un caseificio locale, e si erano ingozzati di formaggi, yogurt e succhi di frutta costosissimi. Per quanto Wilson abbracciasse il concetto generale di condivisione, non vedeva l’ora che quei maestri profittatori se ne andassero.
Nelle ultime settimane Wilson aveva anche iniziato a temere Manson. Preoccupati per il coinvolgimento del loro cliente con un personaggio così discutibile, i dirigenti dei Beach Boys fecero un controllo su Charlie e informarono Dennis che il suo ospite aveva scontato una pena per rapina a mano armata ed era attualmente in libertà vigilata. Wilson non era minimamente preoccupato. Aveva sempre saputo che il suo nuovo amico aveva un passato criminale. Manson amava vantarsi che la prigione era suo padre e la strada sua madre. Un passato criminale piaceva a molti giovani in un’epoca in cui era di moda credere che il governo fosse il nemico. Ma mentre Manson e il suo gruppo continuavano a vivere con Wilson, i divertenti sproloqui filosofici di Charlie divennero occasionalmente cupi. Sembrava credere di avere il potere di vita e di morte sui suoi seguaci e amici, compreso il suo famoso protettore. Una volta aveva puntato un coltello alla gola di Wilson e gli aveva chiesto come si sarebbe sentito se lo avesse ucciso. Wilson aveva mormorato: “Fallo”, e Manson si era tirato indietro. Il fatto che permettesse ancora a Charlie di frequentarlo la diceva lunga sulle tendenze autodistruttive di Wilson.
Anche se Wilson e i suoi compagni Golden Penetrators non lo avevano detto chiaramente, portare Manson al Whisky quella notte d’estate sarebbe servito a ricordargli il suo posto. Nonostante Charlie ci credesse fermamente, godere della generosità di una star non rendeva lui stesso una star. Il Whisky era l’apice del cool, la patria di ciò che era di tendenza, ma intimidatorio per tutti gli altri. Non era particolarmente grande, aveva una capienza di soli 350 posti, ma l’arredamento era stato progettato per fare impressione. Decorato nei toni drammatici del rosso e del nero, il locale presentava un palco al centro di una pista da ballo rialzata. C’erano alcuni tavoli per il pubblico e una piccola area separata per i dignitari del mondo dello spettacolo. Al di sopra della pista c’erano delle “gabbie” di vetro occupate da ballerine poco vestite che saltellavano provocatoriamente a tempo di musica quando le band facevano una pausa tra i loro set delle 21.30 e delle 23.30. Queste intrattenitrici furono soprannominate Go-Go dancer, e omonime imitatrici si esibivano nei club di tutto il mondo.
Per i frequentatori abituali del Whisky che non erano celebrità, scendere in pista per ballare era il vero momento clou della serata. Il galateo non scritto del locale proibiva di prestare troppa attenzione agli altri ballerini; il concetto era che tu eri spettacolare e tutti gli altri erano obbligati a guardarti. Di conseguenza, nessuno guardava mai gli altri, tantomeno dava l’idea di restarne impressionato. Era difficile trovare spazio sulla pista da ballo. I potenziali ballerini aspettavano che gli altri se ne andassero in bagno o si fermassero per riprendere fiato, e cercavano di battere gli altri aspiranti al posto. Occhi acuti e gomiti affilati erano utili.
Poiché Melcher, Jakobson e Wilson erano clienti abituali, per loro era sempre disponibile uno dei séparé riservati alle celebrità. Mentre vi si dirigevano, Manson si staccò, dicendo che voleva ballare. Charlie non avrebbe potuto scegliere un modo più sicuro per ricevere la sua punizione. Al Whisky, solo poche tra le ragazze vestite alla moda e ossessionate dalle celebrità si sarebbero degnate di ballare con un uomo basso e trasandato, e anche se Manson fosse riuscito in qualche modo a salire in pista, sarebbe stato solo un corpo in più stipato lì dentro. Se si fossero trovati in uno stato d’animo più generoso, uno tra Wilson, Melcher o Jakobson avrebbe potuto accompagnarlo sulla pista da ballo, dato che si faceva sempre posto per le star e i loro accompagnatori. Ma erano più che felici di lasciare che Charlie si arrangiasse da solo. Presto sarebbe tornato al loro séparé, castigato dall’inequivocabile constatazione che, nonostante tutte le sue ciance filosofiche e i suoi grandiosi sogni di celebrità rock, almeno per il momento rimaneva un granello insignificante nella galassia di Los Angeles.
Manson sparì tra la folla e i tre amici sorseggiarono drink e chiacchierarono, finché non furono spaventati da un trambusto. Guardandosi intorno, videro qualcosa di unico nella storia del Whisky a Go Go: invece di fare a gara per salire, tutti stavano lottando per sgomberare la sacra pista da ballo, dove erano tanto ammassati da avere difficoltà a separarsi. Melcher, Jakobson e Wilson si scambiarono un’occhiata perplessa. Si alzarono per capire cosa stesse succedendo e videro che al centro della pista era rimasta un’unica figura: Charlie Manson, che si dimenava a ritmo di musica. La sua danza diventava sempre più maniacale; rovesciava la testa all’indietro e lanciava le braccia in aria e, come raccontarono tutti in seguito, sembrava che dalle punte delle sue dita e dai capelli scaturissero scintille elettriche.
La folla si era allontanata dalla pista da ballo come spinta da qualche campo di forza irresistibile. Ora girava intorno alla pista, ipnotizzata dalla vista del derviscio vorticoso che sembrava dimentico di tutto tranne che del ritmo pulsante. Nelle ultime settimane, Wilson, Jakobson e Melcher avevano visto Manson affascinare senza sforzo piccoli gruppi durante i pasti o alle feste. Fino a quel momento non avevano idea che potesse estendere il suo magnetismo e dominare un pubblico molto più vasto, per non parlare di uno impassibile come quello abituale del Whisky. Una cosa era convincere donne bisognose di attenzioni che lui era un guru onnisciente che doveva essere venerato e obbedito. Ma lì si trattava di modaioli la cui immagine dipendeva in gran parte dal fatto che non si facevano impressionare da nessuno se non dalle star più importanti. Ora fissavano rapiti qualcuno che solo pochi istanti prima sarebbe sembrato il candidato più improbabile ad attirare la loro attenzione. Era una reazione che andava ben oltre la deferenza, pensò Jakobson. Si avvicinava alla soggezione.
“Quella volta al Whisky è stato quando abbiamo capito che lui era davvero qualcosa di diverso,” ha raccontato Jakobson quasi quarantacinque anni dopo. “In qualsiasi momento e in qualsiasi luogo Charlie decideva di essere al centro dell’attenzione, accadeva. Al Whisky, tutti pensavano di aver già visto tutto. Almeno fino a quella sera, quando hanno visto Charlie”.
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