Anteprima – Tutti giù per terra – Manuel Nucci
Vi lasciamo una piccola anteprima gratuita della nostra prossima uscita!
Stiamo parlando di “Tutti giù per terra” di Manuel Nucci, una storia cupa in cui un abile intreccio di eventi passati e futuri fanno luce su una vicenda raccapricciante.
1
Dietro la porta verde
Mercoledì, 5 novembre 2003
Imponente come un monolite di manifattura ignota, silenzioso come la roccaforte di una civiltà perduta, l’orfanotrofio Sant’Eufemio dominava l’intera vallata.
Un muro di mattoni scalcinati lo cingeva proteggendolo dal placido assedio della natura.
Fitte querce si innalzavano e allungavano rami nodosi oltre le mura, del tutto indifferenti a ciò che doveva stare di dentro e ciò che doveva stare di fuori.
Era notte e il buio aveva una consistenza fuligginosa, densa, quasi tangibile. Nessuna luce proveniva dall’edificio mentre quella degli astri finiva imprigionata nei pesanti drappi di nubi che ingombravano il cielo e rischiaravano l’orizzonte. Di tanto in tanto le correnti permettevano al volto pallido della luna di mostrarsi e allora, per pochi attimi, la vallata si tingeva di argento come illuminata da una gigantesca strobosfera.
In lontananza una vecchia Fiat Argenta procedeva verso l’orfanotrofio, scrutando con i suoi fari flebili l’accidentata stradina in terra battuta.
Decenni di intemperie avevano trasformato il verde scuro della carrozzeria in un colore indefinito che pareva uscito da bronchi infiammati. E, come a voler ribadire il concetto, la marmitta forata vomitava una serie di rumori a metà tra rantoli e colpi di tosse.
Dentro l’abitacolo due uomini stavano in silenzio, con un pezzo di musica classica a fare da sottofondo. L’uomo alla guida era alto, talmente alto da toccare con la testa il cielo scollato e leggermente cadente della cappotta. Aveva il naso arcuato e la fronte spaziosa, resa ancora più ampia da una leggera stempiatura. L’altro aveva una benda nera sul viso che ne celava i tratti somatici. Era di statura inferiore alla media e di una decina di chili oltre il suo peso forma ideale. Con lui la calvizie era stata meno clemente, i capelli superstiti si estendevano da una parte all’altra della testa, raggruppati in ciuffetti unticci che davano l’impressione di essere attaccati alla cute con la colla.
L’uomo bendato si sporse in avanti e tese il braccio. Con l’indice e il medio che si muovevano come i tentacoli di una lumaca riuscì a individuare la manopola dello stereo. La girò del tutto e le frenetiche note de l’Estate di Vivaldi smisero di far vibrare le casse gracchianti.
«Non hai una cassetta di musica normale?»
«Che cazzo dovrebbe significare “musica normale”?»
«Che ne so, la musica che fanno alla radio… quella… quella con le parole.»
«Caro mio, fattelo dire, il tuo concetto di musica fa davvero schifo.»
«Lascia stare, va’… fa’ finta che non t’ho detto niente. Quando diavolo arriviamo, piuttosto? È da un’ora che dici che mancano dieci minuti.»
«Tranquillo, siamo quasi arrivati.»
«Posso togliermi la benda?»
«No.»
«Perché?»
«Perché hai accettato tutte le condizioni, senza condizioni.»
«Senti… stavo pensando che forse non me la sento. Magari non è così sicuro come sembra.»
«Non dire stronzate, mi sa che non hai idea di quanto sia stato difficile farti accettare.»
Per qualche secondo nessuno parlò, poi l’uomo bendato riprese.
«Sei proprio sicuro che lei ci sarà?»
«Certo che ci sarà. Non ha molte possibilità di rifiutarsi, tu che dici?»
L’altro non sembrava tanto convinto, si grattava l’interno del pollice con l’unghia lunga e sudicia dell’indice. Con l’altro pollice, invece, carezzava una fototessera. La superficie era stata lisciata così tante volte che il volto della bella bambina bionda era quasi del tutto svanito.
Passarono altri attimi di silenzio prima che riattaccasse.
«Secondo te brucerò all’inferno?»
«Davvero me lo stai chiedendo?»
«Sei il mio prete, no? Rispondimi.»
«Cristo santo! Posso capire il paradiso, sperare che dopo la morte ci sia un posto migliore dove la vita continua, ma… l’inferno? È assurdo che nel Duemila ci sia gente che ancora ci crede.»
«A me invece sai cosa sembra assurdo? Un prete che non crede alla Chiesa; ecco, questo sì che è assurdo.»
«L’inferno di fuoco come luogo letterale è una dottrina morta e sepolta. Ha funzionato alla grande, in passato, ma oggi è solo una cosa scomoda che si spera venga dimenticata il prima possibile.»
«Sai una cosa? Come prete non vali un cazzo.»
«Neppure tu sei un granché come anima penitente.»
«Dico sul serio, secondo te sono una persona cattiva?»
«Sei solo quello che sei, come tutti. E poi, cosa dico sempre? “Che c’è di male se nessuno si fa male?” Ne abbiamo già parlato, in questo modo sarai in un ambiente protetto e non rischierai di combinare altri casini.»
«Già, questo è vero… Porca miseria, che puzza di merda, sembra di stare nel buco del culo di una vacca. Da dove diavolo l’hai cacciato questo catorcio?»
«Te l’ho detto, non possiamo dare nell’occhio.»
«Se non volevi dare nell’occhio potevamo prendere una macchina normale, non un cassonetto con quattro ruote.»
«Sta’ zitto, so quello che faccio…»
L’automobile imboccò una salita, poche decine di metri e arrivò a ridosso di un vecchio cancello a battente dal telaio imbottito di oblique sbarre metalliche. A fianco una placca sbiadita riportava la scritta “Orfanotrofio Sant’Eufemio”.
Il guidatore spense i fari ma lasciò il motore acceso.
«Siamo arrivati? Mi tolgo questo affare…»
«Aspetta un attimo, c’è il controllo.»
Qualcuno si mosse nell’ombra e si avvicinò alla macchina che continuava a borbottare rumorosamente.
Un fascio di luce illuminò la targa sotto il paraurti anteriore, subito dopo si spostò verso l’abitacolo accecando il prete. L’altro colse solo un alone sbiadito attraverso la stoffa ruvida. Una rapida occhiata ai due passeggeri e l’uomo spense la torcia. Con il capo fece un cenno al guidatore, sollevando il mento in modo quasi impercettibile. Potersi salutare senza smuovere neppure un dito era un’usanza molto apprezzata fra gli abitanti di quei posti. Il guardiano si diresse verso il cancello, tirò a sé il chiavistello di ferro e aprì le due ante in una successione flemmatica. Il pedale della frizione venne lasciato, quello dell’acceleratore schiacciato, le gomme lisce slittarono un poco sulla ghiaia, fecero qualche giro sulla superficie scricchiolante del piazzale e infine si fermarono del tutto.
«Ci siamo.»
«Era ora! A momenti impazzivo.»
Il passeggero si sfilò la benda e scese dall’auto. La prima cosa che notò nel buio cenere della notte fu che nel piazzale erano parcheggiate altre automobili, sette o otto, forse. La seconda fu l’ingombrante presenza dell’orfanotrofio dietro di lui, il misterioso edificio che aveva accettato di raggiungere a occhi chiusi, inteso sia nel senso letterale dell’espressione che in quello di “senza esitazione” che l’uso comune gli attribuiva.
Era una costruzione imponente, che si estendeva su tre o quattro piani. La facciata principale era tempestata di finestre rettangolari e ricordava vagamente le mura di un cimitero, con i loculi disposti uno sull’altro in lugubri file ordinate.
«Che razza di posto è? Sembra un museo… e perché è tutto buio?»
«Sta’ un po’ zitto, e restami vicino. Dovremo entrare dal retro.»
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