Anteprima – Siamo come le farfalle – Lisa Beneventi

Anteprima – Siamo come le farfalle – Lisa Beneventi

Vi lasciamo una piccola anteprima gratuita di una delle nostre prossime uscite, la saga familiare di Lisa Beneventi, “Siamo come le farfalle”.

 

 

Prologo

 

Eppure non mi dà gioia questo incontro di stanotte

avventato, inatteso e subitaneo,

troppo simile al lampo,

 già svanito prima che uno possa dire «lampeggia».

William Shakespeare

(Giulietta e Romeo)

Il primo febbraio 1964, Gigliola Cinguetti vinceva il Festival di Sanremo con la canzone Non ho l’età. Aveva sedici anni, come me. Due mesi dopo, fu la prima classificata anche all’Eurofestival di Copenaghen e tutta Europa quell’estate cantò Non ho l’età non ho l’età per amarti… Non ho l’età per uscire sola con te… Un’altra canzone si imponeva a Sanremo quell’anno e fu anch’essa cantata in moltissime lingue. Era Una lacrima sul viso di Bobby Solo.

Quelle canzoni sembravano scritte appositamente per noi, per Fabio e per me.

Anche noi, forse, non avevamo ancora l’età per amare… ma quel pomeriggio del 15 giugno 1964, in quella sala del cinema Radium dalle scomode poltroncine in legno, dove eravamo entrati senza neppure guardare il titolo del film − quasi avessimo inconsciamente premeditato ciò che sarebbe successo − scoprimmo l’amore in un lungo dolcissimo e al tempo stesso appassionato bacio che ci stordì per tutta la durata della pellicola.

Ci spaventammo. I nostri sensi si erano improvvisamente risvegliati dopo mesi di sguardi innocenti e romantici, di bigliettini scambiati di nascosto sotto i banchi di scuola.

Ci spaventammo. O meglio fu lui che si spaventò per la sua reazione incontrollata e incontrollabile. Io ero in estasi. Il primo vero amore… Ma quando uscimmo dal cinema per andare alla fermata della corriera che lo avrebbe riportato nel suo paese, precipitai dalle stelle allo sgomento più nero e spuntarono le prime lacrime, proprio come nella canzone di Bobby Solo.

«Abbiamo sbagliato tutto! Non possiamo continuare. È troppo presto.» Non capivo il senso di quelle parole.

«Cosa abbiamo sbagliato?» gli chiesi.

«Ti ho mancato di rispetto. Siamo partiti col piede sbagliato. È meglio che non ci vediamo più.» Il tono di Fabio era categorico, irremovibile. «Scusami. È tutta colpa mia. Finiamola qui.»

«Ho capito, anche tu sei come tutti gli altri. Cercate di pomiciare con le ragazze e, quando avete ottenuto quello che volete, filate via!»

«No, non è vero!»

«Hai ragione, hai rovinato tutto! Ciao!»

Ero offesa, stravolta, incredula… Me ne tornai a casa quasi di corsa, desiderosa di chiudermi nella solitudine della mia camera per lasciare scorrere le lacrime. Non capivo quella reazione insensata, esagerata, ma mi rendevo conto che era tutto finito.

Piansi molto quella sera e anche il giorno dopo. Ripensavo al sabato precedente, a quell’ultimo giorno di scuola quando, grazie alla complicità di alcuni compagni, avevamo organizzato una gita in bicicletta con pic-nic. Eravamo tre coppie. Quelli che non erano di Reggio avevano noleggiato una bicicletta. Eravamo partiti alla fine della mattinata alla volta di Albinea, a una quindicina di chilometri dalla città. Il sole di giugno era ormai caldo, la campagna fiorita, poche le automobili che allora percorrevano la statale.

Lascia ch’io viva un amore romantico…

Avevamo percorso quel tratto di strada senza dire una parola. Qualche sguardo e qualche sorriso, qualche battuta scambiata con gli amici. Sapevamo che quel giorno sarebbe finalmente successo qualcosa, che ci saremmo infine parlati.

Venivamo da realtà diverse. Io ero una ragazza di buona e benestante famiglia borghese, anche se la definizione potrà sembrare contraddittoria, come vedremo.

La mia famiglia aveva saputo approfittare del boom economico degli anni Sessanta e vivevamo in un bell’appartamento moderno, con ogni confort. Mobili in teck, televisore, lavatrice e tutto l’ambaradan moderno.

Dopo la mitica Giulietta Sprint, mio padre aveva acquistato una Opel Coupé bianca. Sembrava una di quelle lunghe macchine americane che si vedevano nei film. Malgrado tutto questo, però, io non ero mai uscita da sola con un ragazzo, non avevo mai frequentato feste, come si usava a quei tempi, ero timida, molto timida, goffa.

Fabio veniva da un piccolo paese di provincia, sul Po, figlio di un maestro, con una famiglia numerosa. Tra il mutuo della casa, le rate del frigorifero e tutto quello che occorreva per fare studiare i figli, per i suoi genitori non era facile arrivare alla fine del mese. Lui era impegnato nella parrocchia e nella vita politica del paese, allegro, gran parlatore, burlone, il barzellettiere della classe, ma stranamente un po’ a disagio nei confronti di questa ragazza di città, perfettina, coi suoi abiti firmati, le sue acconciature all’ultima moda. Non per niente ero la figlia del parrucchiere più rinomato della città.

Ci fermammo al caffè d’angolo del centro di Albinea. Oggi è diventato il Bistrot Liberty, ma all’epoca era un modestissimo bar con qualche tavolino all’aperto, rinomato per i suoi panini al salame o alla mortadella. Era deserto. Circondata da vecchie case, con una piccola aiuola nel mezzo, la piazzetta di Albinea era allora meta di gite domenicali in bicicletta di giovani e famiglie.

Dopo la sosta panini, all’insegna dell’allegria generale − era finito il terzo anno delle magistrali e ci sentivamo tutti più grandi, pronti a vivere nuove esperienze, nuove sensazioni, tanto più che, nel gruppo, non eravamo l’unica coppia che stava per nascere − ripartimmo alla volta del castello, allora aperto al pubblico. Si trovava in cima a una collinetta, in mezzo a un boschetto. La complicità ci univa e creava un’atmosfera di gioiosa attesa accentuata dalla luce abbagliante del mezzogiorno e dal silenzio che ci circondava.

Eravamo noi, soli, al centro del mondo, giovani che si aprivano alla vita.

Col pretesto di aiutarmi nella salita, lui mi prese la mano e non me la lasciò più per tutta la giornata. Arrivati al parco, ogni coppia si incamminò per un sentiero diverso. Tutto sembrava programmato da tempo.

Noi ci sedemmo ai piedi di una grossa quercia. Non ci fu bisogno di tante parole.

«Vuoi essere la mia ragazza?»

«Sì.»

«Mi sono innamorato di te il primo giorno di scuola quando ti ho vista salire su per le scale.»

«Ma va’, non prendermi in giro!»

«No, eri la più bella. Avevi un tailleur di renna verde e bordeaux. Quando hanno fatto l’appello nell’atrio della scuola e ti hanno chiamato, ho sperato di essere in classe con te.»

«Non ci posso credere! Tu eri ancora un bambinetto, portavi i calzoni corti e non eri alto come adesso. Però mi eri simpatico anche tu!»

«Tu invece avevi già tanti mosconi che ti giravano intorno! Ce ne era uno che veniva sempre a prenderti all’uscita.»

«No, veniva solo il sabato, era il fratello di una mia amica, uno conosciuto in campeggio al mare, ma non era niente. Dopo un po’ gli ho detto di non venire più!»

«E poi eri già una secchiona!»

«Sì, ma quel giorno, il primo giorno di scuola, non ho fatto una gran figura!»

«Perché?»

«Non ti ricordi? Appena entrati in classe, il professor Barigazzi guardò il suo registro e sentenziò: “Oggi è il 3 ottobre allora Alai, Benassi, Beneventi… Beneventi, vieni alla lavagna”. Mi sentii morire… perché proprio io? Mi fece fare degli esercizi di matematica. Fui una frana tremenda. Non seppi fare nulla. Avevo il vuoto dentro e il rossore che cominciava a salirmi in volto,» ricordai con una risatina nervosa, facendo sorridere anche lui.

Quel giorno al parco, mano nella mano, parlammo dei nostri programmi per l’estate. Sarei andata qualche giorno al mare, a Valverde di Cesenatico, dove i miei avevano un piccolo appartamento; e poi in Germania, a Darmstadt, presso la sede centrale della Wella, dove avrei frequentato un corso per acconciatori. Mio padre aveva accettato l’invito del direttore della Wella italiana soprattutto per farmi studiare il tedesco. Ero fortunata, perché ancora non esistevano i corsi estivi di lingue per studenti. E io ero già stata all’estero; l’anno prima ero andata in Belgio per imparare il francese, presso una famiglia di acconciatori di Bruxelles: non una qualunque, ma nientemeno che quella dei parrucchieri della regina Fabiola.

«Vorrei che questi mesi volassero! Preferirei andare a scuola! E tu che farai?» chiesi a Fabio quel giorno al parco di Albinea.

«Partirò sabato prossimo con Pietro per Montevelo di Trento. Ci sarà un convegno di pedagogia come tutti gli anni. Ci possiamo scrivere, se vuoi.»

«E… quando ci rivediamo?» osai appena chiedere.

«Domani vengo a Reggio, nel pomeriggio. Ci possiamo incontrare?»

Che domanda! Certo. Ero pazza di gioia. Stava proprio capitando tutto a me!

Così ci vedemmo il lunedì pomeriggio.

E tutto andò a scatafascio!

Dopo due giorni di lacrime, quando tutto ormai sembrava perduto per sempre, impulsivamente, come ho sempre fatto, presi la decisione di scrivergli. Qualcosa in me si era ribellato. Non accettavo l’idea di perderlo. Dovevo tentare di tutto, fargli capire che nulla era perduto, che se c’era una colpa, quella era mia, ero io che non dovevo permettere che succedesse quel che era accaduto. Tenevo molto alla sua amicizia, per tutto quello che mi aveva dato, per i sentimenti belli e semplici che mi aveva fatto vivere, per le parole che mi aveva detto. Non volevo essere la fregatura del suo primo amore e gli chiedevo di ricominciare, di cercare di rendere preziosi gli anni che avevamo davanti per conoscerci, senza impegnarci troppo. Citai il passo che il nostro professore di italiano nelle lunghe chiacchierate che faceva con noi sull’amore, la vita, il matrimonio, ci disse una volta: “Prepararsi ad amare non significa fare molti tentativi. È rispettarsi per essere in grado di rispettare il corpo e la personalità di un altro, è arricchire tutto il proprio essere per poterne arricchire un altro”. Anche noi dovevamo imparare a prepararci all’amore, con fiducia, con ottimismo, imparando dagli errori.

Mi sentivo confusa, imbarazzata, ma volevo difendere il mio sentimento con tutta la mia forza.

Mi rispose parlandomi dell’intesa che era sorta tra noi fin dai primi colloqui, della profonda comprensione e dell’amicizia vera che ci legavano, della stima reciproca che la nostra piccola colpa non aveva intaccato. “Ti rivedo sulla fotografia della II A. Con la tua grazia, la tua semplicità, spicchi e domini la scena. Con i capelli piuttosto arruffati, un sorriso dolcissimo sulle labbra… sei stupenda”. Non dovevamo essere superficiali, come molti giovani dei nostri tempi, dovevamo costruire il nostro rapporto con serietà se volevamo realizzare i nostri progetti.

“Nient’altro, devi solo continuare a essere così, come sei, te stessa cioè, con parole tue nel migliore dei modi”. Con quanta dolcezza mi scrisse e con quanta tenerezza lessi la sua dichiarazione d’amore: Ti voglio bene!

Appena ricevuta la lettera, non resistetti alla tentazione di rivederlo. Avevo bisogno di parlargli prima di partire. Impulsiva come sempre, decisi di andare a Gualtieri. Ma come fare? Venticinque chilometri in bicicletta, ce la potevo fare. Con Claudia, la mia amica del cuore, facevamo spesso dei giri in bicicletta. Quel giorno le proposi una scampagnata, e lei accettò subito. Non ricordo come feci a convincerla ad andare fino a Gualtieri, ma so che mi seguì docilmente…

 

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Vi ricordiamo che “Siamo come le farfalle” di Lisa Beneventi sarà disponibile in tutte le librerie dal 10 giugno!

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