Anteprima gratis – Non parlare – Uzodinma Iweala
Vogliamo condividere con voi un estratto della nostra prossima uscita!
Di seguito potete leggere gratuitamente un estratto del romanzo “Non parlare” di Uzodinma Iweala.
Buona lettura!
Prima parte
NIRU
1
Fuori, la neve comincia a cadere poco prima della lezione di Letterature del Mondo della professoressa McConnell. All’inizio resta sospesa, leggera, quasi rifiutasse di attaccarsi a qualcosa, preferendo indugiare attorno ai rami nudi e tremolanti degli alberi. Come tutti i ragazzi, in classe mi siedo dando le spalle alla porta, dal lato opposto rispetto alla finestra. Per arrivare qui dobbiamo attraversare il prato della Cattedrale, perciò stiamo tutti da quella parte, anche perché nessuno vuole essere l’unico corpo maschile circondato da ragazze. Non conviene mai dare l’impressione di essersi sforzati troppo. Sotto lo sguardo della professoressa ci togliamo le giacche e poggiamo i libri sui banchi. Dopo la prima settimana del semestre ha rinunciato a chiedere di sistemarci al nostro posto in fretta. Ora aspetta finché non siamo pronti, con un pugno chiuso attorno alla penna e l’altro sul fianco.
Non riesco a prestare attenzione perché Meredith non sta prestando attenzione. Siede sempre dal lato opposto rispetto a me, con le spalle rivolte alla finestra e alla fila di pini che blocca la vista su Wisconsin Avenue. Di solito cerca di farmi ridere con le sue mini-imitazioni quasi perfette dei movimenti esagerati della professoressa McConnell, ma oggi è girata per metà verso la finestra, gli occhi rivolti al cielo. Osservo la classe. Nessuno sta prestando attenzione. Alcuni fissano gli interessanti ninnoli raccolti dalla professoressa nei suoi viaggi per il mondo. Ha passato un periodo in Kenya e in India a insegnare a leggere ai ragazzi più giovani e alle donne più anziane, quindi sugli scaffali sono allineate vivaci stoffe kikoi, insieme a bambole scacciapensieri del Guatemala e braccialetti di ferro arrugginiti. I miei compagni di classe pensano che siano autentici, ma ho un cugino in Nigeria che vende pezzi di antiquariato nuovi di fabbrica agli stranieri alla ricerca delle proprie storie coloniali. A volte la professoressa brucia l’incenso e la classe odora di legno di sandalo o cannella. Mi fa pizzicare il naso.
Mi accorgo di quello che sta per succedere e cerco di avvisare Meredith, ma lei è del tutto persa nei suoi pensieri. In silenzio, la professoressa McConnell la guarda contemplare la neve che cade. I nostri compagni soffocano i risolini mentre Meredith, come un gatto, insegue i fiocchi di neve con piccoli movimenti della testa. Terra a Meredith, dice la McConnell. Meredith sobbalza e picchia il ginocchio contro il banco. Guaisce e fa una smorfia. Ridono tutti, persino l’insegnante, che chiede cosa ci sarà mai di più interessante della nostra avvincente discussione in classe. Viene giù forte, dice Meredith. Finalmente la professoressa guarda fuori dalla finestra e dice, Porca miseria, e ridiamo tutti. Aspettate qui un minuto, aggiunge prima di infilarsi in corridoio, e la classe si riempie immediatamente di chiacchiere.
Adam e Rowan corrono alle finestre. Sì, cazzo, dicono quasi all’unisono. Da dove sono seduto vedo scendere sui rami dei pini i soffici fiocchi di neve. Il vento forte agita lenzuolate di bianco, formando onde e cerchi. Quando torna, la professoressa McConnell ha un’espressione corrucciata e so che sta pensando alle ripercussioni che la tormenta avrà sullo svolgimento del programma. Rowan la guarda e dice, La lezione è ufficialmente finita. Rowan, urla la McConnell, ma in pratica lui è già fuori dalla porta. Io penso, Come cazzo faccio a tornare a casa?
Puoi venire a casa mia, dice Meredith mentre guardiamo ammucchiarsi gli strati di neve. Chiamo mia madre per chiederle se dovrei guidare fino a casa. Se ce la fai, risponde. Mando un messaggio a mio padre. Dice di aspettare a scuola, ma a me non va di aspettare a scuola. Sono anni che aspetto che la gente venga a prendermi. E poi ormai ho la patente e l’ultima cosa che voglio è aspettare.
Le auto su Wisconsin Avenue si muovono a passo di lumaca con le luci di emergenza lampeggianti. Le traverse laterali sono ancora peggio. Dall’altra parte della strada, Meredith e io guardiamo Adam e Rowan che cercano di spostare la macchina di Rowan dal parcheggio angusto in cui l’ha infilata, sul vialetto in salita vicino agli impianti di atletica. Gli pneumatici slittano sulla neve fresca e poi l’auto balza contro quella davanti con uno stridio nauseante. Ma porca di quella puttana! grida Adam. Rowan abbassa il finestrino per controllare il danno. Lascia cadere la testa sul volante e urla cazzo nel bianco che si fa più fitto.
Oppure potresti fare come loro, dice Meredith da dietro le manopole. Fa’ strada, le dico, e la seguo lungo il marciapiede mentre lei arranca con la lingua di fuori per catturare i fiocchi che cadono. Sui suoi capelli si forma un velo bianco che li fa diventare di un castano scuro man mano che la neve si scioglie. Tira su col naso e se lo asciuga sulla manica del cappotto. Per me lei è bella, anche se non lo sa ancora. Ha labbra carnose, la bocca grande e uno strano naso piramidale. Sembra la versione giovane di Anne Hathaway.
Dovresti baciarla, mi ha detto una volta Adam mentre attraversavamo il prato della Cattedrale. Si vede che le piaci. E davvero, non è così difficile, la porti in un angolo della pista da ballo e poi metti la bocca sulla sua, problema risolto. Adam ha un approccio pratico riguardo a tutto. È quel tipo di persona che parcheggia la macchina con il muso puntato verso casa per non perdere tempo a fare manovra quando torna indietro. Non credo che funzioni in quel modo, ho detto io. Invece sì, ha detto lui, io ho fatto così. Se le piaccio, deve baciarmi lei, ho detto. Di sicuro non funziona così, ha detto Adam. Allora forse non le piaccio. Adam si è dato uno schiaffo sulla fronte.
Un autobus lento, carico di gente dall’aria infelice, ci supera lasciandosi dietro una fanghiglia marrone. Se gli autobus circolano, forse riesco ancora a prenderne uno fino a Bradley Boulevard e poi a camminare fino a casa per quasi due chilometri, come facevo dopo che OJ è andato al college e prima di prendere la patente. Sarebbe una rottura di scatole camminare nella neve, specialmente con le scarpe da ginnastica, ma poi sarei a casa. Mi fermo. Che c’è, chiede Meredith. Ha la faccia pallida, a parte la punta del naso di un rosso pulsante. Forse dovrei tornare in autobus, dico, gli autobus sono sicuri. Merda, ma siamo quasi arrivati, dice Meredith, neanche per sogno, cazzo. Faccio per allontanarmi ma lei mi afferra. Scivola sul marciapiede e fa mulinare le braccia cercando di ritrovare l’equilibrio. Lo slancio fa cadere entrambi e ridiamo anche se la neve fredda mi si infila nei pantaloni. Meredith ha ragione. Che senso ha sprecare ore su un autobus lentissimo quando siamo a pochi passi da una casa riscaldata e forse anche da una cioccolata calda?
Casa sua è su O Street, separata dalla strada da aiuole in pendenza, con le spoglie marroni e contorte di fiori autunnali e piante ornamentali a fiancheggiare ripidi scalini di pietra. Mia madre approverebbe l’aria modesta dell’edificio, soprattutto perché le ricorderebbe Londra. Mio padre non capisce che senso ha sborsare tutto quel denaro per un posto piccolo con tubature vecchie che hanno un costante bisogno di manutenzione, persino se ci si può vantare di avere come vicini senatori, segretari di gabinetto e la sterminata pletora di lobbisti sconosciuti ma influenti che fanno girare gli ingranaggi di questa città. Io preferisco i marciapiedi in mattoni rossi e gli acciottolati agli ampi prati e i boschetti tra le case nel sobborgo in cui vivo, e questo quartiere è molto più vicino a scuola, ma l’erba del vicino è sempre più verde, immagino. Di solito queste strade sono piene di turisti e studenti, ma oggi sono vuote e silenziose per via della tormenta che scende sulla città. Mi copro le orecchie con le maniche nell’attesa che Meredith cerchi le chiavi. Fa’ con comodo, le dico mentre lei batte le scarpe contro la porta rosso brillante per scrollarsi di dosso la neve.
Tutto sembra una questione di vita o di morte, dice Meredith mentre il meteorologo alla TV descrive concitato la neve che ci cade attorno. Lei si inginocchia sul divano del soggiorno con il viso contro la finestra fredda. Il suo fiato annebbia il vetro. Abbiamo mangiato dei sandwich con brie e tacchino perché non c’era altro in frigo e nessuno consegna la pizza a domicilio. Il tacchino non mi dispiace ma il brie, con quella crosta dura, non sa di nulla, e non ho mai sopportato quell’interno molle e appiccicoso. Le ho detto cosa mangiamo a casa, pesce secco, che mi piace proprio, e trippa, che evito nascondendola sotto il piatto, e lei ha fatto delle involontarie espressioni di disgusto seguite da un poco convincente, Buono, credo. I suoi genitori dovevano tornare da Houston questa sera, ma tutti gli aeroporti sono stati chiusi, dice il meteorologo entusiasta mentre alle sue spalle passano filmati degli spazzaneve che attendono lungo la pista al Reagan National Airport. Vuoi del whiskey, mi chiede lei prima di sparire. Ritorna con una bottiglia di liquido ambrato e se ne versa un po’ nella cioccolata calda. Puoi mischiarla con la cioccolata, non ha un sapore tanto diverso. Ne beve un sorso, e una goccia cade dalla tazza sul cuscino del divano. La tampona facendola assorbire dal tessuto e poi mi guarda. Non ti ubriacherai, è solo un goccetto per scaldarti, dice. Non sono convinto. Se vivessimo in Francia, dice. Se vivessimo in Arabia Saudita, dico io. Non bevo perché non ho ventun anni e perché non sento il bisogno di bere. I miei compagni di classe parlano continuamente di essersi ubriacati a casa di questo o di quello alle feste nei weekend, ma non li ascolto davvero. Il rischio è troppo alto, mi dice OJ. Non sei come quella gente, loro possono fare cose che tu e io non possiamo fare. Non ha mai bevuto e i suoi compagni lo adoravano. Lo avevano eletto capoclasse. Era capitano della squadra di calcio. I miei insegnanti mi chiamano ancora con il suo nome. Prendo la bottiglia e tolgo il tappo. Passo il dito sulla parte in gomma e mi tocco le labbra. All’inizio l’alcol è pungente e poi diventa dolce, riportandomi alla memoria quella volta che avevo quattro anni e mio padre aveva invitato degli amici a vedere la nazionale nigeriana alla Coppa del Mondo. Avevo visto un bicchiere di Coca dimenticato e lo avevo trangugiato in tutta fretta, sperando di sparire prima che qualcuno mi dicesse di non berla. Dentro c’era qualcosa di più della Coca. L’avevo sentito bruciare giù per la gola, fino alla pancia. La bocca mi era andata a fuoco. Avevo mugolato, cercando di sputare quello che non avevo ingoiato. Tutti si erano paralizzati. Il volto di mio padre era diventato una maschera africana con occhi, narici e labbra enormi. Poi aveva attraversato la stanza con un balzo, mi aveva afferrato per un braccio e mi aveva dato uno schiaffo sulla schiena con il palmo piatto. Il suono aveva spezzato la tensione, facendo ridere forte gli amici di papà. Avevano battuto i piedi e le mani, soffocando la sua voce che urlava, Chi ti ha detto di venire qui a bere quello, eh, mentre mi spingeva contro il lavello e mi faceva inghiottire manciate di acqua dalla mano a coppa finché il mio stomaco non era più riuscito a trattenerla. Avevo vomitato bile annacquata e marroncina nel lavello bianco e su tutto il ripiano. Non tocco l’alcol da quel giorno.
Meredith si alza e si stiracchia inarcandosi e facendo salire il maglione fino a mostrare il luccichio dell’anello all’ombelico. Mi porge la mano e dice, Vieni con me. La seguo in una camera da letto all’ultimo piano della casa, dove gli spioventi bassi danno la sensazione che lo spazio sia più piccolo di quello che è. La luce della strada filtra attraverso una larga finestra circolare e subito sparisce nelle nicchie e negli spazi angusti. Meredith si butta su un letto con le coperte bianche rese arancioni dalla luce esterna. Ascoltiamo il rumore del vento e della neve ghiacciata contro il tetto mentre le cime degli alberi ondeggiano avanti e indietro, dando l’impressione che la stanza oscilli in equilibrio precario. Mi stringo le braccia al petto e mi massaggio i tricipiti attraverso le maniche. Sono già stato a casa sua molte volte, ma mai così tardi, mai solo noi due. So che è il sogno di ogni adolescente, anche solo per avere il diritto di vantarsi con gli altri nell’angolo in fondo alla sala degli studenti dell’ultimo anno, ma odio il modo in cui i miei compagni parlano delle ragazze e del sesso. Le loro voci suonano avide e inaffidabili.
Niru? Meredith pronuncia il mio nome come fosse una domanda. È seduta all’indiana sul letto, con la testa inclinata di lato. Le ombre le oscurano il viso ma le sue unghie catturano la luce ogni volta che si passa le dita tra i capelli. Puoi entrare, sai, dormirai qui. Dal parquet gelido, dove arriccio le dita contro il freddo, faccio un passo e i miei piedi si distendono su un morbido tappeto caldo. Mi inginocchio accanto al letto e appoggio la testa poco distante dal ginocchio di Meredith. Tiene la mano sospesa proprio sopra la mia guancia, e tendo la mascella, poi la schiena, poi le gambe e alla fine le dita dei piedi, ma lei non mi tocca. Mi ha toccato così tante volte in passato, nella foga di un abbraccio, con le mani per impedirmi di cadere, con schiaffetti giocosi mentre corriamo, ma sembra che stavolta sarà diverso. Non mi tocca. Invece, butta i capelli sulla spalla opposta e si appoggia la mano sul ginocchio. Chiudo gli occhi. Perché non mi hai baciata nel Bishop’s Garden, all’Homecoming, perché non mi hai baciata, chiede.
Vi ricordiamo che il romanzo sarà disponibile in tutte le librerie e online.
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