Anteprima gratis – I lupi alla porta – Soren Petrek

Anteprima gratis – I lupi alla porta – Soren Petrek

Vogliamo condividere con voi un estratto della nostra prossima uscita!

Di seguito potete leggere gratuitamente il prologo del thriller storico “I lupi alla porta” di Soren Petrek!

Buona lettura!

Prologo

 

7 dicembre 1941

I caccia sbucarono dal nulla sopra la Flotta degli Stati Uniti stanziata sul Pacifico. Molti trasportavano siluri. Erano decollati dalle portaerei nascoste a chilometri di distanza, dopo un lungo viaggio dal Giappone. Gli aerei erano parte di un attacco a sorpresa, ideato nella speranza di forzare gli Stati Uniti a stringere un patto accettabile, lasciando il Giappone libero di prendere il controllo del Sud Est asiatico.

Sarebbe andata diversamente.

Il mattino era frizzante e luminoso. Uomini e donne si svegliarono al rumore di aeroplani che solcavano il cielo. Il personale medico non vedeva l’ora di trascorrere un altro giorno in quel paradiso. Le navi da guerra e le portaerei galleggiavano ancorate nelle calme acque turchine del porto naturale dell’isola.

Quando suonarono le sirene, tutti uscirono all’esterno curiosi. Alzarono lo sguardo verso quegli strani velivoli che solcavano il cielo e scendevano in picchiata. Rimasero a guardare mentre gli aerei sganciarono le bombe.

Quella che era sembrata una vacanza si trasformò in un caos folle. Le infermiere nei loro costumi da bagno corsero via dalla spiaggia per soccorrere i feriti. Alcuni piloti che erano lì di stanza si affrettarono verso i loro aerei per contrattaccare. Alcuni riuscirono ad alzarsi in volo. Altri invece furono colpiti mentre erano ancora al suolo, e morirono tra le fiamme nelle cabine di pilotaggio. Il Presidente Roosevelt chiese al Congresso di dichiarare guerra. La decisione fu immediatamente ratificata.

 

***

Ufficio del Presidente degli Stati Uniti, Casa Bianca, Washington DC
Giugno 1942

 

Franklin Delano Roosevelt era seduto alla sua scrivania alla Casa Bianca. La luce di una piccola lampada rischiarava la superficie del tavolo. La Sala Ovale era buia, era tardi. Aspettava la chiamata di uno dei suoi generali, Leslie Groves: era una questione di vitale importanza.

L’attacco giapponese a Pearl Harbor aveva forzato la mano all’America: ora erano in guerra contro Germania e Giappone. Era da tanto che l’Inghilterra paventava il riarmo di Hitler, ma la popolazione americana era stata riluttante a farsi coinvolgere in un altro conflitto europeo. Ora però, sei mesi dopo l’attacco a sorpresa e con buona parte della flotta americana danneggiata in modo grave o affondata, la nazione era sconvolta. Era necessaria una reazione forte. Gli americani guardavano al loro Presidente in cerca di risposte. Li aveva guidati attraverso la Grande Depressione. La guerra sarebbe stata una prova ancora più grande.

Al suo fianco giaceva la sedia a rotelle, sulla quale raramente si faceva vedere da anima viva. Il suo corpo poteva anche essere rotto, ma non il suo spirito. E con il mondo in guerra, la sua nazione aveva bisogno di lui. Ogni decisione era cruciale: i due o tre anni seguenti avrebbero cambiato tutto. Da un cassetto della scrivania estrasse un solo foglio di carta, di cui ormai conosceva a memoria le parole. Lo raggelavano.

Prese in mano il lungo bocchino portasigarette che teneva tra i denti e lesse di nuovo la lettera del celebre fisico Albert Einstein: lo spronava a dare un’immediata risposta alla minaccia della Germania nazista sviluppando una bomba atomica funzionante. La situazione era chiara: non potevano permettere che ci riuscissero prima i tedeschi, altrimenti la guerra sarebbe stata persa dall’oggi al domani. Einstein aveva spedito altre due lettere: entrambe sostenevano la necessità della ricerca sul nucleare. Roosevelt le aveva lette e rilette spesso, mentre contemplava il futuro non solo degli Stati Uniti, ma dell’intero equilibrio del potere mondiale. Se Hitler avesse sviluppato quella bomba, avrebbe governato il mondo.

Roosevelt spostò lo sguardo alla destra della scrivania, dove un sostegno riccamente intarsiato reggeva un enorme mappamondo. Non voleva trascurare nulla. A volte lo faceva girare, per ricordarsi quanto fosse vasto il campo di battaglia in cui gli Stati Uniti e gli Alleati stavano combattendo. Con l’Esercito imperiale giapponese che invadeva buona parte del Sud Est asiatico, respingendo gli Alleati a ogni angolo, il risultato della guerra era ben lontano dall’essere prevedibile. L’Australia potrebbe essere la prossima, pensò. Le prime truppe americane erano in Inghilterra da sei mesi, in un altro teatro di guerra, in vista dell’invasione dell’Africa e dell’Europa.

Non bastarono l’oliva che pescò nel bicchiere da martini appoggiato con cura sul sottobicchiere, né il ricordo del drink che aveva buttato giù in un sorso ad alleviare quel senso di spossatezza. C’era sempre altro lavoro da sbrigare. Non pretendeva di capire le nozioni scientifiche a cui si faceva riferimento in quella lettera, ma era consapevole del fatto che scienziati da ogni angolo del mondo libero avevano incoraggiato Einstein a scriverla. Le sue parole non lasciavano spazio al dubbio: le teorie sulle reazioni nucleari non erano più solo ipotesi. Una bomba con una gigantesca forza esplosiva poteva essere costruita: era un dato di fatto.

Sulla sua scrivania, il telefono squillò. Tutte le chiamate venivano filtrate dal capo di gabinetto: in qualunque momento, se il Presidente era sveglio, allora lo era anche lui. Roosevelt riceveva chiamate a quell’ora solo se le stava aspettando, o se venivano dal Primo ministro inglese, Winston Churchill. Si tolse il pince-nez e si strinse la radice del naso tra due dita. Non rispondeva mai al telefono al primo squillo. Era meglio fare aspettare l’interlocutore, qualche secondo, perlomeno.

«Presidente Roosevelt,» disse, tenendo la cornetta tra la spalla e il mento mentre sistemava una nuova sigaretta all’estremità del bocchino.

«Leslie Groves, signore.»

«Generale, grazie di avermi ricontattato con così poco preavviso. Come procedono le cose?»

«Sarà un impegno enorme, signor Presidente. Dovremo procurarci il terreno per le varie fasi del progetto. La manodopera può essere un problema, ma possiamo usare dei civili per buona parte del lavoro.»

«Il suo rapporto parla di collocare una struttura a Oak Ridge, Tennessee. È ancora fattibile?»

«Sì, signor Presidente.»

«E la sicurezza?»

«Solo poche persone ai vertici avranno idea dell’obiettivo finale, signor Presidente. Oak Ridge diventerà una cittadina del tutto funzionante. Pensiamo che arriveranno circa settantacinquemila persone prima che il progetto sia concluso.»

«Eccellente. Avete selezionato l’uomo alla guida del progetto?»

«Sì, signor Presidente. Ho incontrato scienziati in tutta la nazione. Alcuni di loro hanno la testa tra le nuvole e non riuscirebbero neanche a guidare un gruppo di cani nell’inseguire un gatto. Quasi tutti i rimanenti sono incredibilmente pomposi e tronfi. Ma c’è una persona. Un fisico a Berkeley e alla Cal State University.»

«Non mi dica chi è, per il momento. Lo porti a Washington e a quel punto io e lei lo incontreremo insieme. Credo moltissimo nella prima impressione.»

«Darò subito disposizioni, signore. E se non volesse venire?»

«Dia ordini all’FBI di mettere in chiaro che il Presidente vuole incontrarlo, immediatamente.»

«Sì, signore.»

***

Qualche giorno dopo, dall’altra parte degli Stati Uniti, J. Robert Oppenheimer era in piedi immobile a fissare l’equazione matematica che istoriava la grande lavagna. Capelli scuri, figura magra ed emaciata, indossava un completo a tre pezzi con una cravatta nera a completare l’aspetto da studioso davvero esemplare. La cenere della sigaretta cadde sul pavimento della classe. A trentotto anni, il professore di fisica teorica avanzata all’Università della California di Berkeley era entusiasta dei suoi studenti, molti dei quali si erano iscritti lì solo per poter studiare sotto la sua guida, ma le sue ricerche avevano sempre la precedenza. Alcuni colleghi avevano dato a quell’uomo gentile e un po’ introverso l’affettuoso soprannome di “Oppie”. Gli piaceva quel nomignolo e l’atmosfera informale di cui godevano lui e gli altri studiosi. Favoriva le discussioni, e nel campo della fisica teorica conoscenze e idee venivano costantemente discusse. Alcune venivano approfondite, altre abbandonate.

Durante i suoi studi con e sotto la guida di molti fisici di fama internazionale, a un certo punto era diventato famoso per le sue teorie brillanti. Idee che rimanevano ancora tutte da sperimentare.

Era sabato, e la maggior parte delle persone era fuori a coltivare hobby e vita sociale, lasciando i corridoi bui e deserti. Il rumore di pesanti passi echeggiò nel corridoio che conduceva alla stanza di Oppenheimer, che non aveva hobby e pochi interessi al di fuori della fisica. Due uomini entrarono e senza far rumore chiusero la porta alle loro spalle. Indossavano dei completi scuri, soprabiti beige e cappelli a tesa larga. Il portamento sobrio e il fisico prestante li identificavano come atleti o soldati. Non erano né l’uno né l’altro: erano agenti del Federal Bureau of Investigation.

Oppenheimer non si accorse della loro presenza fino a quando non si allontanò dalla lavagna per vedere l’equazione nella sua interezza. Copriva ogni centimetro della superficie e, per chiunque non fosse un matematico, non significava nulla. Di certo non interessava agli agenti dell’FBI. A malapena le rivolsero uno sguardo distratto.

Il più alto dei due agenti fece un passo avanti. «Dottor Oppenheimer?» Suonava più come un’accusa che una domanda.

Oppenheimer si voltò verso di loro. Per un attimo sembrò avere problemi a metterli a fuoco. La sua mente era altrove. «Cosa volete?» chiese, sedendosi sul bordo della cattedra e appoggiando il gessetto accanto a sé.

«Abbiamo l’ordine di portarla a Washington,» disse il secondo agente. «Siamo dell’FBI.»

Oppenheimer si limitò a incrociare le braccia. «L’ordine di chi?»

«Del Presidente degli Stati Uniti. Del suo Presidente.»

«Mi lusinga, ma ho del lavoro da finire e delle classi a cui insegnare. Non riesco proprio a incontrare il Presidente ora.» Oppenheimer raccolse il gessetto e andrò verso la lavagna.

«Dottor Oppenheimer, lei deve venire con noi. È un ordine presidenziale. Siamo qui solo per eseguirlo,» disse l’agente alto. «O ci segue senza fare storie oppure la dovremo arrestare. Glielo chiediamo con le buone.» Entrambi gli uomini si mossero verso di lui.

Da sopra una spalla, senza guardare in faccia gli agenti, Oppenheimer chiese: «Potrei gentilmente sapere il motivo?»

«Abbiamo il permesso di dirle che riguarda la lettera del dottor Einstein al Presidente Roosevelt. È tutto ciò che sappiamo. Il Presidente stesso ha autorizzato il Bureau a condividere questa informazione con lei. Dev’essere importante.»

«Prendo la giacca,» disse Oppenheimer. Le scoperte di Einstein erano alla base del suo intero campo di studi. Gli agenti si guardarono e scossero la testa. Erano stati avvertiti che spesso gli scienziati vedevano le cose a modo loro.

Mentre li seguiva fuori dall’edificio, Oppenheimer ricordò che Einstein aveva spronato il Presidente Roosevelt a finanziare la ricerca sulle armi atomiche. Einstein aveva lasciato la Germania durante la prima fase della persecuzione contro gli ebrei. Lui e centinaia di altri scienziati erano fuggiti verso gli Stati Uniti e le sue prestigiose università. I tedeschi erano stati degli sciocchi a cacciare via alcune delle menti migliori al mondo.

Ma, se aveva a che fare con la bomba atomica, Einstein era a Princeton. Molto più vicino a Washington che Oppenheimer. Cosa voleva quindi il Presidente da lui?

 

Vi ricordiamo che il romanzo sarà disponibile in tutte le librerie e online.

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