Anteprima gratis – I giorni della Chimera – Stefano Zoboli

Anteprima gratis – I giorni della Chimera – Stefano Zoboli

Vogliamo condividere con voi un estratto della nostra prossima uscita!

Di seguito potete leggere gratuitamente un estratto del romanzo distopico “I giorni della Chimera” di Stefano Zoboli.

Buona lettura!

Prologo

(tempus fugit)

 

Jersey City, quattro mesi prima, 27 febbraio

 

Il sabato notte era fatto a giorno. Le insegne sfavillanti avvolgevano i grattacieli della città, il rumore martellante della movida si spandeva lungo la West Side Avenue e tra i veicoli costretti a muoversi a rilento.

Beep beep.

Il clacson della berlina blu attirò gli sguardi della lunga fila di persone davanti all’entrata del Bull Drink. Il guidatore tese il braccio fuori dal finestrino e gridò: «Allora, ci muoviamo?» L’uomo inserì la marcia più bassa. Devo fare in fretta. Sterzò completamente il volante a sinistra e appena vide un buco tra due auto schiacciò l’acceleratore e si infilò in mezzo. Dovette subito frenare per evitare di tamponare il veicolo davanti, costringendo quello dietro di lui a fare probabilmente lo stesso, visto che non mancò di regalargli dei colpi di clacson. L’uomo lo mandò a quel paese con un gesto della mano e continuò a spostarsi di fila in fila, in un continuo accelerare e frenare, il piede che danzava frenetico da un pedale all’altro.

Superato il punto dell’ingorgo, si trovò con la strada libera; accelerò di colpo, facendo sussultare il motore. La velocità faceva stridere gli pneumatici a ogni curva e in certi momenti l’auto sembrava pattinare sull’asfalto.

Il telefono risuonò all’interno dell’abitacolo. L’uomo premette un pulsante sulla plancia. «Sì?»

«Dottor Paxton, che diavolo sta combinando?» gracchiò la voce nell’altoparlante.

«Non c’è tempo adesso!» gridò l’uomo. «Devo andare a West Point. È tutto sbagliato.»

«Ma cosa sta dicendo?»

«Parlo del Brasile!»

«Quella storia è chiusa da un pezzo! Sta dando i numeri. Ha forse perso la testa?»

Tu. Tu. Tu. La linea cadde interrompendo la conversazione.

Paxton non riuscì a trattenersi dal dare un pugno al cruscotto. «Idioti!»

È così che deve andare a finire? si chiese, mentre un brivido lo fece tremare: lui era lì, nel bel mezzo di un sabato sera, con la gente impegnata a svagarsi, ignara di quello che sarebbe accaduto nelle prossime ore.

Svoltò bruscamente a sinistra all’angolo con la Communipaw Ave facendo sbandare il posteriore. La valigetta di plastica arancione sul sedile del passeggero scivolò e urtò contro la portiera. Paxton distolse lo sguardo dalla strada per un attimo e la riposizionò al centro del sedile.

Da qualche parte nella città, le luci di un intero quartiere si spensero. Qualche istante dopo, un secondo quartiere rimase al buio. Come un domino, tutta la città s’immerse nel nero assoluto della notte.

I semafori si disattivarono e all’incrocio con la Statale US1-9 un grosso SUV si scontrò con un autoarticolato, colpendo la fiancata del camion. Quando Paxton si rese conto del pericolo era troppo tardi per frenare, così fece la prima cosa che l’istinto gli diceva: sterzò, facendo sbandare l’auto e stridere gli pneumatici sull’asfalto nello sforzo di tenerla in strada. Riuscì a evitare l’incidente per un soffio, anche se fu costretto a svoltare a destra, deviando dal percorso che lo avrebbe portato più velocemente a West Point. «È già cominciata, cazzo! È troppo presto. Troppo presto!»

Ripensò a quella fottuta riunione e si maledisse per la sua condiscendenza. Scosse la testa. Avrebbe dovuto opporsi con tutte le forze e invece non lo aveva fatto, si era lasciato convincere.

Ora era tardi per i rimpianti. Doveva pensare al presente. Rimanere appeso a quel filo di speranza. «Devo fare più in fretta.»

Piombò sull’auto che lo precedeva, scalò una marcia e la superò a destra continuando la sua corsa, imperterrito, mentre un lampo illuminava la città, un macabro flash sulla tragedia che stava andando in scena. Le prime gocce cominciarono a cadere sul parabrezza.

«Ci mancava pure questa.»

Finalmente vide appesa a un portale la segnaletica del cartello che cercava. «Ecco l’uscita.» Rallentò bruscamente e imboccò lo svincolo che passava sotto la soprelevata e immetteva sulla Tonnelle Ave, in direzione West Point.

La pioggia si fece incessante, la carreggiata sembrava uno specchio d’acqua e a quella velocità la visibilità era nulla. Tuttavia, il dottor Paxton non demorse: sapeva cosa fare, quella era l’unica cosa importante, l’ultima speranza. Non dormiva da ormai quarantadue ore, aveva trascurato la famiglia, ma alla fine ce l’aveva fatta, aveva trovato l’anomalia e ora poteva rimediare agli errori. Però il tempo stava per scadere. Doveva fare in fretta.

All’intersezione con la Manhattan Ave due veicoli erano fermi nella corsia di destra, come se aspettassero che il semaforo spento diventasse verde. Spostandosi verso il centro della strada, Paxton si lanciò nell’incrocio. All’ultimo si accorse della monovolume gialla che giungeva da sinistra. Sentì lo stridio della frenata, e avvertì quella sensazione spietata degli pneumatici che perdono aderenza e dell’urto imminente.

L’impatto fu inevitabile e la berlina blu fu colpita nel posteriore, perdendo stabilità. Paxton serrò forte le mani sul volante e lottò per un lungo e spaventoso istante per riprendere il controllo, mentre l’auto scivolava fuori dalla strada. Spinse sull’acceleratore, sperando che le gomme facessero presa sull’asfalto. «Coraggio, dolcezza.»

Sentì lo stridore metallico del telaio che grattava contro qualcosa sul marciapiede. La berlina arrancò e sbandò, poi riuscì finalmente a stabilizzarsi e a riportarsi sulla carreggiata. Paxton sospirò, gettando un’occhiata fuori dal finestrino: la monovolume era ferma nel mezzo del crocevia con il parafango divelto e un fanale rotto, il proprietario che inveiva contro di lui. «Merda. C’è mancato poco.»

Ridiede gas e tornò a guardare avanti. Fu un attimo, il tempo di accorgersi che si trovava sulla corsia di emergenza: un flash accecante, poi il riflesso di un cartello di lavori in corso furono le ultime cose che vide. L’auto travolse le barriere del cantiere, piroettò su un lato e si ribaltò più volte. La danza si chiuse un centinaio di metri più avanti, lasciando la berlina con le ruote rivolte verso il cielo e una scia di detriti sull’asfalto.

Silenzio.

«Signore! Sta bene?»

Una voce di donna risuonò nella mente di Paxton, facendogli riprendere conoscenza. Un insieme di rumori sordi, lo stridore delle frenate, grida e suoni confusi gli si spansero nella testa. Spalancò gli occhi e si ritrovò a fissare il volante deformato della sua auto. Era frastornato e gli ci volle qualche istante per mettere a fuoco la situazione, prima che si materializzasse il ricordo dell’incidente.

La disperazione lo travolse. Ruotò la testa a destra e sinistra, provando a liberarsi, a piegare le gambe, ma gli arti non rispondevano; a stento muoveva le dita del braccio destro. Tuttavia non provava dolore, solo stanchezza. Si sentiva sempre più leggero, il respiro che si faceva più debole.

Si rese conto che era arrivata la fine… Non solo la sua.

In quegli ultimi istanti, Paxton guardò fuori, oltre il braccio sanguinante che penzolava dal finestrino: la valigetta arancione era in mezzo alla strada, riversa sull’asfalto sotto la pioggia battente, con i cardini sfondati dall’urto e il coperchio ruzzolato qualche metro più avanti; centinaia di cubetti di ghiaccio erano sparsi ovunque e, in mezzo a questi, alcuni frammenti di vetro erano tutto ciò che restava delle piccole fiale.

 

 

1

 Jasper e la ragazzina

 

Oceano Atlantico, dodici chilometri dalla costa del New Jersey, oggi, 25 giugno

 

La Italian Arrow era una casa di lusso galleggiante di quarantadue metri, in gran parte composta di alluminio e vetro, con una scala centrale che saliva da poppa fino al ponte principale. Dotata di propulsione ibrida, poteva coprire lunghi tragitti senza bisogno di rifornimento.

Jasper Mary si rilassava sul ponte, stravaccato su una sdraio con indosso solo un paio di bermuda, mentre lo scafo procedeva col pilota automatico in pieno mare aperto, mantenendo la velocità di crociera.

Jasper aveva la fronte e il petto imperlati di sudore. Le mani scivolose cercavano a tentoni di afferrare il bicchiere sul tavolino a fianco; una volta preso, dovette tirarsi su a sedere per bere l’acqua ghiacciata. Si bloccò a metà sorsata, investito da un profumino di carne abbrustolita che gli fece brontolare lo stomaco. Alzò lo sguardo al cielo (a chi li avesse visti, quegli occhi blu intenso sarebbero sembrati due cristalli di ghiaccio), il sole splendeva dritto sopra la sua testa. Doveva essere circa mezzogiorno.

Una salvietta lo colpì in pieno volto.

Sul ponte aveva fatto la comparsa una ragazzina di colore, unico membro dell’equipaggio e sua compagna di viaggio. «Hai finito di crogiolarti al sole mentre io cucino? Vuoi sciogliere anche l’ultimo grammo di grasso che ti è rimasto?»

Jasper si tolse la salvietta dalla faccia e la usò per asciugarsi il sudore sulla testa rasata e sull’alone di barba, poi passò al petto e alle braccia. «Non sono magro, Mya. Ho il fisico asciutto.»

«Sì, come la tua testa, Jay.»

«La vuoi sempre vinta, eh?»

Un sorriso dispettoso le si dipinse in volto. «Mettiti la maglietta e vieni a mangiare,» gli disse, prima di voltarsi e andarsene.

Jasper la seguì con lo sguardo mentre tornava all’interno dell’imbarcazione, i dreadlock raccolti in una folta coda le battevano sulla schiena a ogni passo. Conosceva da un paio di anni Miniya – o Mya, come preferiva farsi chiamare –, una ragazza africana di appena tredici anni che non aveva mai conosciuto i genitori.

Perché mi hai seguito e non sei rimasta al villaggio? Jasper scosse la testa. Adesso la vedeva felice, ma non potevano sapere cosa li aspettasse in futuro, quali pericoli avrebbero messo in gioco la vita di Mya, quando invece poteva starsene al sicuro nella sua terra.

Erano partiti dalla Tanzania e si trovavano in mare da oltre un mese, ormai. Jasper aveva intrapreso quel lungo viaggio per ritrovare la zia e i Lovekin, gli amici che erano come una seconda famiglia per lui, e assicurarsi che stessero bene. Dopo il blackout tutte le comunicazioni si erano interrotte, e per quel poco che erano riusciti a sapere al villaggio, sembrava fossero state colpite altre parti del mondo oltre alla loro, con conseguenze che non poteva neanche immaginare.

I due naviganti si spostavano di giorno, mentre di notte spegnevano i motori e si facevano cullare dalle onde. Jasper preferiva evitare incontri inaspettati lungo il tragitto, soprattutto durante le ore di riposo, quando avrebbero potuto essere sopraffatti più facilmente; di fatto non avevano ancora visto anima viva e l’unico suono proveniente dalla radio era stato un gracchiare fastidioso prima che andasse fuori uso.

Jasper passava gran parte della notte a vegliare; era in quel momento che i tormenti del passato riaffioravano più forti, portando con sé tutto l’orrore come una nebbia che saliva piano piano per divenire sempre più impenetrabile; allora si aggrappava al carteggio, concentrandosi sulle carte nautiche. Calcolava e ricalcolava la rotta, finché non riusciva a isolare la mente. Una folata di vento, necessaria per allontanare quegli incubi, anche se sapeva che sarebbe stato solo per un breve tempo.

Jenny, mi dispiace.

 

 

Vi ricordiamo che il romanzo sarà disponibile in tutte le librerie e online.

Di seguito i link di alcuni store in cui potete trovare l’ebook

 

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