Anteprima gratis – Genesi – Riccardo Iannaccone
Il primo capitolo della nostra prossima uscita, “Genesi” di Riccardo Iannaccone, in anteprima gratuita!
Buona lettura!
Aspettiamo i vostri commenti! 🙂
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100% di batteria
Prossima fermata, Eur Fermi. Treno per Rebibbia.
La voce gracchiava dai microfoni della stazione.
Michele sbirciò di sottecchi suo figlio. Lo aveva visto di rado negli ultimi mesi, perciò ogni singola occasione era buona per scrutare i suoi lineamenti, cercando di capire cosa lo turbasse o lo rendesse felice. Lo fissò. Poi, spostando lo sguardo sul cellulare estratto dalla tasca sgualcita, notò che erano in largo anticipo. Suo figlio Giulio, però, non ci fece caso più di tanto, questa fu l’impressione di Michele, poiché troppo concentrato a studiare i passeggeri che insieme a loro occupavano la carrozza rovinata che percorreva la linea B, da Laurentina fino a Rebibbia.
Un uomo tozzo tossì a pochi centimetri da loro, era sporco e non emanava un buon odore; il figlio, nel frattempo, era tornato a leggere il romanzo che stringeva tra le mani, e allora fu Michele a esaminare chi saliva e chi scendeva dalla carrozza centrale.
Era deformazione professionale, non poteva farci nulla, da avvocato, o forse avrebbe dovuto dire ex avvocato. Non smetteva mai di osservare le persone, studiarle e provare a capire cosa si celasse dietro quella apparente calma sociale.
In fondo alla carrozza c’erano due ragazzi indiani che parlavano ad alta voce, discutendo di esami, lezioni e appunti su dispense accademiche. Poggiata alla porta, invece, c’era una donna di circa cinquant’anni, capelli rossi e occhi penetranti, assorta nel cellulare e attenta che il suo tailleur non venisse rovinato dallo sporco dei vetri. Ora che Michele ci faceva caso, tutti, o quasi, smanettavano con un cellulare tra le mani. Era l’alienazione dell’essere umano, del genere umano, e ci stavano cadendo tutti dentro, senza appello e senza speranza. Sorrise, pensieroso, poi tornò a guardare le persone che aveva intorno, gente comune: dall’indigente che scese dopo una fermata, al gruppo di studentesse universitarie, passando per figure evanescenti, donne in carriera, sportivi con la bicicletta in spalla e avvocati.
Come lui, come era stato lui.
Michele sorrise di nuovo. Era incastrato tra iPad, visi catatonici e zombie, i quali giocavano con le varie app messe a disposizione dall’Android Store. Odori che variavano dal sudore stantio al profumo di marca. Una giungla di mani inospitali, su quel vagone utile solo come mezzo per tagliare in due la città di Roma e arrivare così a destinazione, per l’incontro prefissato con lei.
Prossima fermata, Eur Fermi.
Uscita lato destro.
Michele si girò di scatto: Giulio era ancora lì, che leggeva, completamente assorbito dalle pagine e non da uno schermo fluorescente o da altre diavolerie simili. Era fiero di lui.
Fiero, nonostante lo capisse poco, nonostante facesse una fatica tremenda a leggere fra le sue righe. Giulio era così da quando lui e sua madre avevano divorziato, stravolgendogli per sempre l’esistenza.
Timido, calmo. Un ragazzo di quindici anni di poche parole. Amante dello studio, delle poesie di Byron e del jazz. Soprattutto il jazz di John Coltrane con le sue melodie fluttuanti.
Sembrava fosse passato un secolo da quando era alto all’incirca cinquanta centimetri, ora invece era un ragazzo atletico, quasi un metro e settantacinque, i capelli color cenere, gli occhi nocciola e un viso che ricordava la bellezza particolare della madre.
Con lineamenti asciutti e antichi, da soldato greco.
Le elucubrazioni di Michele furono bruscamente interrotte da uno squillo. Il Samsung gli lampeggiava nella tasca, vibrando con un suono secco e fastidioso.
Lo silenziò. Infine, notando che si trattava di lei, srotolò gli auricolari e si preparò per la telefonata, mentre la voce metallica della metro avvertiva i passeggeri che erano prossimi ad arrivare alla fermata di Eur Fermi.
«Ciao. Dimmi tutto.»
«Siete in metro?» chiese lei.
«Sì, all’altezza dell’Eur.»
«Bene.»
Ci fu un attimo di esitazione nella sua voce.
«Il compito in classe come è andato?» riprese lei.
«Il compito in classe?»
«Sì, il compito in classe, cosa ti ha detto Giulio?»
Cadendo dalle nuvole, Michele farfugliò qualcosa che la mandò in bestia.
Quel senso di mancanza che lo pervadeva e lo marchiava oramai da diversi mesi. Era all’oscuro di ciò che lei gli chiedeva con insistenza e la loro linea di comunicazione si sbriciolava contro uno spesso muro.
«Sono stufa. Come si fa? Come si fa? Il compito, Michele. Il compito.»
Michele alzò gli occhi, ma fu costretto a fermare lo sguardo sulla lastra della carrozza, che procedeva nel suo incessante sferragliare lungo le rotaie. Giulio, notando che il padre si stava spazientendo, corse in suo soccorso, afferrando al volo il cellulare e proseguendo il dialogo con la madre. Michele, parlando sottovoce, specificò al figlio che si trattava del compito in classe, e che lei non avrebbe di sicuro mollato la presa. A maggior ragione dopo la sfuriata ai suoi danni.
«Perché non mi hai detto niente?» chiese bisbigliando al figlio.
Però Giulio non rispose, fece finta di essere interessato a ciò che gli stava dicendo sua madre. Allora Michele, con un riflesso involontario, finì per sbirciare l’orologio che un uomo di ottant’anni sfoggiava al polso sinistro. Le lancette segnavano le 15:37, erano in perfetto orario.
«Okay, mamma.»
Michele tornò a concentrarsi sulla telefonata tra il figlio e la ex moglie.
«Al prossimo compito, almeno mandamelo un messaggio su WhatsApp, va bene?»
«Sarà fatto.»
«Ripassami tuo padre.»
«Sì!» esclamò Giulio allungando l’apparecchio verso Michele, che lo strinse forte con entrambe le mani, temendo inconsciamente che potesse cadere e rompersi in mille pezzi.
«Vuoi stargli dietro a questo ragazzo?»
«Com’è andato il compito?» Michele rispose alla domanda con un’altra domanda.
«Michele.»
«Eh…»
«Non farmi tornare sempre sullo stesso argomento. Devi essere più concentrato. Altrimenti, e non è una minaccia, sai quali saranno le conseguenze. Michele, ti prego, non mettermi alla prova.»
«So bene di cosa stai parlando,» disse lui.
«E allora non farmelo ripetere un milione di volte.»
«Gradirei attaccare, ora. Se non ti dispiace.»
«Sembra di essere ritornati ai tempi del caso Fazzi,» dichiarò lei con tono aggressivo.
Quella fu una pugnalata a tradimento e Michele ingoiò il boccone amarissimo.
«Non comportarti da avvocato. Comportati da padre.»
Era il punto esclamativo di una conversazione nata male e proseguita peggio. Lui la salutò, con la testa rivolta verso il basso, ignorando lo sporco che si addensava sotto i seggiolini della carrozza. Lei fu ancora più stringata e gelida, e preferì “spendere” quegli ultimi secondi ascoltando nuovamente la voce del figlio.
«Un bacio, mamma.»
Michele squadrò Giulio.
«Perché non mi hai detto del compito in classe?»
La sua voce era angosciata.
«Ci sarebbero mille perché…»
«Me ne basta uno,» disse lui, incalzandolo.
«Perché non voglio tornare dalla mamma.»
Michele non capiva quel ragionamento.
«Voglio dormire da te, stanotte.»
Michele si arrovellò il cervello. Provò in tutti i modi a spiegare al figlio che, comportandosi in quella maniera, il pericolo era quello di sortire l’effetto contrario, ovvero di arrivare a un totale allontanamento tra loro due. Ma il figlio scuoteva la testa, come se avesse un preciso piano da portare avanti. Un piano articolato e legittimo che comprendeva la soluzione del puzzle della sua vita. Giulio non voleva più soffrire.
«Allora, com’è andato questo compito?»
«Ho preso il voto più alto della classe.»
«Perché non dirmelo?»
«Perché con te non ho bisogno di discutere… di quanto ho preso in un compito.»
Michele gli accarezzò il ciuffo che gli ricadeva sulla fronte.
«Mamma non mi capisce. Non mi dà ascolto. Tu invece mi tratti da persona adulta. Inoltre, ci sono argomenti più interessanti di cui possiamo parlare e, se permetti, ci tengo a quegli argomenti. Tanto, papà, lo sai bene che me la cavo a scuola. O sbaglio?»
«Capisco,» disse Michele sorridendo. «Però, non scordare mai quanto la mamma ti voglia bene.»
Giulio annuì. Le parole del padre gli ronzavano in testa e ne recepiva il loro senso. Ma c’era dell’altro e prima o poi sarebbe riuscito a svelare quella verità ingombrante che gli si era intrappolata in gola. Non voleva tornare da lei, voleva dormire con il padre. Voleva parlare con lui di musica e politica, di calcio e letteratura. E poi voleva parlare del mare, di quanto si potesse perdere un’intera vita a contemplare il mare. La profondità, i pesci, i colori sfumati, le boe galleggianti e i gabbiani in cielo.
«Papà…»
«Neanche per sogno, hai sentito tua madre?»
«Non ti volevo dire questo.»
«Ottimo. Perché sarei stato inamovibile.»
«È il mare…» riprese Giulio.
«È una fissa ormai.»
«Sì,» sorrise il figlio a denti stretti.
«Dimmi,» affermò Michele con fare paziente.
«Il prossimo weekend, possiamo andare a Sabaudia?»
Lui rifletté per un breve istante.
A seguire, come fregandosene degli ipotetici sviluppi, mosse il capo in segno di assenso.
Giulio, in un impeto di gioia incontrollabile, lo abbracciò. La voce pungente dell’altoparlante informò i passeggeri che erano arrivati alla banchina di Eur Palasport.
Gli sportelli si aprirono e diverse persone scesero e salirono; ma l’interesse di Giulio, ancora felice per aver convinto il padre ad andare a Sabaudia, si spostò su una ragazza in particolare.
Era magra e bassa, dai capelli ricci e neri, con dei jeans stretti e una felpa larga griffata Nike. Le sue pupille erano come due pozzi senza fondo e le labbra, prive del rossetto, erano le labbra più belle che Giulio avesse mai visto. Di fianco c’era una donna dalle spalle larghe, carnagione pallida e spessi occhiali da vista; aveva lo sguardo perso nel vuoto e quando la ragazza le rivolgeva la parola, lei, con gli occhi scavati e torvi, la ignorava, oppure faceva finta di ascoltarla.
Giulio adorava quei capelli ricci, il loro muoversi instancabile, inoltre c’era quella impercettibile cicatrice sotto lo zigomo. Una cicatrice attraente, probabilmente con una storia da raccontare, colma di atmosfere, nemici e molto sangue. Giulio fantasticava. Sognava.
Michele lo guardava a debita distanza. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per il suo bene. Ripensava alle affermazioni del figlio e sbuffava con un pizzico di amarezza. Giulio professava il contrario ma, in realtà, spesso faceva davvero fatica a comprenderlo.
Sì, avevano molti argomenti di cui parlare, ma probabilmente non sarebbe servito a nulla. Lei non glielo avrebbe lasciato. L’avrebbe portato via.
Il processo era già cominciato. Certo, Michele non l’avrebbe perso per sempre, ma di sicuro non avrebbe potuto trascorrere due, tre giorni alla settimana con lui. Lei non l’avrebbe perdonato. Gliel’avrebbe fatta scontare.
E Giulio avrebbe pagato per entrambi, in una finta tregua senza alcun vincitore.
Michele lo aveva visto di rado negli ultimi mesi… e il rischio di vederlo ancora meno si stava tramutando piano piano in una cocente realtà futura. Michele non sapeva come dirglielo. Non sapeva cosa fare.
«Il mare,» disse tra sé e sé.
«Cosa, papà?» lo interpellò Giulio con la testa rivolta nella direzione della ragazza riccia.
«Niente, Giulio, parole all’aria.»
«Okay.»
Fu lì, che Michele lo notò: un vecchio signore, seduto nell’ultimo posto disponibile della carrozza. Li stava tipo monitorando, squadrandoli dall’alto in basso. Che cosa voleva? Non si vergognava a fissarli in quel modo così maleducato e inappropriato?
Era strano.
Michele stava per perdere la pazienza. Questione di cinque secondi. Controllò l’orario sul cellulare.
Un gesto di stizza. Tu guarda se non mi costringerà a dirgli di smetterla.
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