Anteprima – Egofobia – Michela Mosca
Ecco una piccola anteprima gratuita della nostra prossima uscita!
Stiamo parlando di “Egofobia” dell’autrice Michela Mosca, un romanzo distopico che esplora gli angoli più bui della mente umana.
Incipit
«911, qual è l’emergenza?»
«Mi chiamo Thomas Horton Parker. Vivo al blocco D, unità ventidue del Sunrise Village.»
«Mi dica perché chiama.»
«…»
«Signore?»
«Ho appena ucciso la mia ragazza.»
I
Come tutto è cominciato
Sette mesi prima
Dottor Lear
«Dati del paziente?»
«Thomas Horton Parker, maschio, caucasico, venticinque anni. È stato portato qui su richiesta del padre e della sorella, che adesso si trovano in sala d’attesa,» si affretta a rispondere l’infermiera, Alexandra, una rossa dalla pelle diafana costellata di minuscole efelidi.
Il dottor Lear annuisce grave, continuando a guardare dritto di fronte a sé.
È un uomo alto e con la carnagione olivastra, gli occhiali tondi dalla montatura fine, il naso adunco e un leggero accenno di baffi.
«Motivo del ricovero?» chiede conciso.
«Un codice H: il giovane si era recluso in casa, da mesi non usciva più dal suo appartamento, né faceva pervenire notizie ad amici e famigliari.»
«Tipico,» commenta fra sé il medico, senza dimostrare particolare interesse.
Quando i sanitari giungono nell’immacolata sala d’attesa, il dottore nota un uomo sulla cinquantina e una giovane donna che si alzano quasi scattando sull’attenti.
«Comodi, comodi.» Fa loro cenno di sedersi, proseguendo verso lo stretto corridoio che conduce al suo ufficio.
«Il dottore vi riceverà a breve, se avete fame potete recarvi al bar situato al piano di sotto,» sente l’infermiera spiegare con cortesia ai due.
Con la coda dell’occhio, l’uomo vede che la ragazza sta squadrando Alexandra con sguardo indagatore, vagamente ostile. Non è la prima che rimane interdetta dal tono di voce mellifluo dell’infermiera e dal suo atteggiamento un po’ svampito. Tuttavia, la giovane ricambia il suo sorriso gentile, per poi girarsi verso l’uomo che è con lei e che ha il volto contratto in una smorfia di preoccupazione.
Il dottore è abituato a questo: gestire familiari in preda al panico, che non hanno idea di come funzioni il mondo della psicologia e della psicoterapia, che si disperano anche di fronte ai casi più blandi, facilmente curabili.
Si reca a passo svelto verso il proprio ufficio e, una volta giunto a destinazione, appoggia l’indice sul piccolo schermo al plasma per il riconoscimento delle impronte digitali. La porta emette un secco rumore metallico e si apre di scatto.
Sulla mastodontica scrivania di vetro, ordinata in maniera quasi maniacale, trova il tablet su cui è stato scaricato un dossier riassuntivo, pervenutogli dal Comitato Sanitario per l’Attivazione della Procedura.
Il soggetto per cui è stato richiesto il soggiorno presso l’Institute of Rare Mental Pathologies è stato sedato e condotto nella sala di registrazione per i pazienti H: coloro che sono affetti dal disturbo di autoreclusione. La denuncia è scattata dopo che i familiari, interrogati dalle agenzie per il controllo dell’impiego dei cittadini, hanno confermato che il giovane viveva in uno stato di isolamento da molti mesi.
«Storie di ordinaria amministrazione,» dice fra sé lo psichiatra, per poi accendere l’interfono e comunicare all’infermiera, tramite i suoi auricolari personali, che è pronto a ricevere la famiglia Parker.
Dopo pochi minuti, ecco che i due fanno capolino nel suo ufficio, scortati da Alexandra: John Parker è un omaccione dai capelli ispidi e brizzolati che, nonostante l’invito dell’infermiera a prendere posto su una delle poltrone di pelle sintetica, continua a rimanere immobile, la bocca dischiusa in un’espressione spaesata. La figlia, una trentenne dall’abbigliamento eccentrico e colorato, gli stringe la mano, e solo in quel momento l’uomo sembra ridestarsi da quello stato catatonico, ristabilendo il contatto con la realtà.
«Così eccoci qui, mio figlio sta per essere internato,» bisbiglia questi, sforzandosi di sorridere e cercando di mascherare il tremolio nella sua voce.
La giovane donna gli rifila un’occhiataccia, Lear nota come le sue guance si accendano di un rosso porpora.
«Papà, devi smetterla con questa storia. Thomas sta bene, ha solo bisogno di un aiuto. Siamo nel ventunesimo secolo, ormai tutti vanno dallo psicologo.» Dopodiché, la ragazza si rivolge a Lear con voce carica di emozione: «Dottore, ho sentito molto parlare di lei, mi lasci dire che è un onore incontrare…»
«Per favore.» Il medico indica con un cenno del capo le due poltrone; non ha tempo da perdere con siparietti che nel corso della sua carriera ha visto davvero troppe volte.
Alla fine, i due si decidono a sedersi. June si sposta la frangia asimmetrica dagli occhi che iniziano a dardeggiare per tutta la stanza.
Pare impressionata dal bianco accecante dell’ufficio, che contrasta con i colori pastello del resto dello stabile. Lear vede che June si è soffermata sulla libreria di legno di canapa alle sue spalle, contenente quasi due centinaia di volumi, tutti stampati su carta.
Ne avrà visti sì e no una decina nella sua vita, forse anche meno, pensa.
La carta è diventata un bene prezioso, per questo Lear custodisce i vecchi libri di testo come se fossero un tesoro inestimabile, e non perde occasione di farne sfoggio.
Dopo essersi schiarito la gola, il dottore inizia a parlare: «Sarò franco, di ragazzi come Thomas ne vedo a centinaia, perciò so esattamente come intervenire. Prima di tutto, dobbiamo condurre alcuni test per capire se il ragazzo soffra di depressione clinica. Faremo un colloquio con lui, poi delle analisi neurologiche e sanguigne per evidenziare eventuali scompensi di tipo ormonale e a livello di RNA messaggero, controlleremo se è carente di alcune sostanze quali magnesio e litio, e valuteremo una possibile terapia farmacologica anche se, sono sincero…» Il dottore si arresta un istante, si toglie gli occhiali, strofina gli occhi e prosegue con il suo soliloquio. «Credo che Thomas sia semplicemente vittima della sua generazione. Troppi stimoli visivi, troppi videogame, troppa tecnologia e zero fiducia nella società. Ritengo che il ragazzo necessiti solo di un periodo di “convivenza forzata”. Quando ero giovane io si parlava di isolamento forzato. Ironico, ma vero.»
Il dottore capisce che June e John Parker si stanno sforzando di seguire il suo discorso, anche quando inizia a sciorinare una serie di termini scientifici quali: “atrofia cognitiva”, “anedonia”, “dopamina”, “ipotalamo”. Gli viene da sorridere nel constatare che i due, che annuiscono a bocca aperta, sono incapaci di comprendere appieno ciò di cui sta parlando. Oserebbe avanzare l’ipotesi che John stia cercando di reprimere l’istinto di imprecare e di chiedergli di arrivare al punto.
Dopo alcuni minuti, fa una pausa, si alza in piedi, scosta la tenda di velluto blu e osserva il panorama che quella insignificante giornata uggiosa restituisce.
«Voi sapete che l’Institute of Rare Mental Pathologies è stato annoverato tra i migliori ospedali psichiatrici, centri di ricerca e di recupero degli Stati Uniti, vero?» June annuisce convinta, e il padre la imita, pur non sembrando troppo sicuro. «E sapete anche che il nostro è tra gli istituti che meglio hanno saputo curare patologie mentali rare, offrendo ai pazienti tutti i mezzi e le possibilità, ovviamente secondo i loro progressi e limiti, di reinserirsi appieno e in modo produttivo nella società?» Di nuovo, i due annuiscono, in soggezione. «Allora perché quelle facce perplesse? Avete scelto voi questo istituto per il programma di recupero, dico bene?»
John Parker risponde balbettando, quasi conteso tra l’istinto di insultare lo psichiatra e la consapevolezza di doversi mordere la lingua: «Mia… mia figlia… lei ha suggerito questo posto.»
Il dottor Lear sposta lo sguardo sulla ragazza.
Questa sorride docilmente, e interviene: «So che c’è la possibilità di scegliere dove venga attuata la procedura, e credo che questo sia il luogo migliore. Essendo inevitabile la reclusione…»
«Ahimè, se foste intervenuti prima non lo sarebbe stata. Ma perché piangere sul latte versato?» Il dottor Lear trattiene a fatica uno sbadiglio, annuisce fra sé e sé e, senza guardare i due interlocutori, conclude: «Vi posso assicurare che la permanenza in questa struttura farà senz’altro bene al ragazzo.»
Dopo aver fatto firmare loro il consenso all’internamento e al trattamento del paziente, l’uomo li scorta verso l’uscita, intenzionato poi a recarsi alla caffetteria e bere il quarto decaffeinato della giornata.
Sente i due parlottare tra loro, il padre ha un tono diviso tra lo scettico e l’esasperato: nulla che lo sorprenda, è abituato anche a quell’atteggiamento.
«Tutto qui? Tutta questa pantomima, per dirci che in questo posto Thomas troverà l’illuminazione divina o che altro ne so?» sta esclamando John Parker, che gesticola furioso, mentre la figlia tenta di placarlo.
«Pa’, il dottor Lear ci ha spiegato che Thomas deve essere sottoposto ad alcuni controlli, e quando avrà determinato con chiarezza qual è il suo problema, allora saprà come intervenire.» La ragazza parla con tono dolce, e suo padre le arruffa i capelli castani, per poi sorridere.
«Quindi è depresso?» chiede poi, con tristezza.
«Non lo sanno ancora, papà, ma qui lo aiuteranno.»
«Come?»
Lear non può fare a meno di elaborare un identikit di quell’individuo: deve essere il tipico uomo di mezza età dalla forma mentis pragmatica, per cui la psicologia, la psichiatria e i misteri della mente sono una pericolosa e inaccessibile scatola nera.
Sua figlia, che nel fascicolo è indicata come professoressa d’arte e cromoterapia, sembra riporre molta più fiducia nella disciplina.
«Beh, intanto si disintossicherà da tutto: televisione, cellulare, computer, qui ogni apparecchio tecnologico personale è severamente proibito. Poi imparerà a uscire dal suo guscio, magari conoscerà persone con cui stringere nuovi legami d’amicizia.»
«Sì, dei pazzi furiosi magari,» asserisce John Parker.
June si volta per controllare se il dottore abbia intercettato il commento, perciò questi finge di essere assorto nei propri pensieri.
«Andiamo, pa’, non è così. Tommy starà in un reparto, anzi in un’ala, di ragazzi che hanno avuto lo stesso periodo critico, ecco. Nessuno squilibrio, solo la cattiva abitudine di recludersi, di isolarsi dal mondo e di vivere in una bolla di sapone. Credimi, dovevamo intervenire.»
«Quindi la dovrei vedere come una sorta di campeggio in cui mio figlio trascorrerà le prossime settimane?»
John Parker inizia a piangere, e June lo abbraccia.
«Pa’, la stai facendo più drammatica di quello che è, credimi.»
«Thomas sarà comunque relegato come prima, che sia per sua scelta o nostra, che differenza fa?» Sprofonda tra il collo e la spalla della figlia, e questa non può far a meno di piangere a sua volta.
«Ti assicuro che andrà tutto bene, rimarremo in contatto con i medici dell’ospedale e appena avranno una diagnosi ci faranno sapere. Credimi, è la soluzione migliore.»
Il dottor Lear sospira e, nell’incrociare gli occhi della ragazza, abbozza un sorriso a bocca chiusa.
È difficile per un genitore accettare l’attuazione del Piano di Intervento Forzato, e Lear pensa che molti la vivano come una sconfitta personale: il fallimento del proprio modello educativo.
Si accomiata con un cenno del capo, ma continua a osservarli da lontano. Quando sono quasi arrivati all’uscita, John vede il figlio parcheggiato su una sedia a rotelle. Alza il pugno al cielo e gli urla un: «Ci vediamo fra pochissimo, campione!»
Thomas tiene lo sguardo fisso sul pavimento, la bocca semi aperta mentre gli occhi roteano debolmente da una parte all’altra nel tentativo di mettere a fuoco le immagini; non degna nemmeno di un’occhiata il padre, che June è costretta a tirare per un braccio per impedirgli di dar sfogo all’impulso di sollevare di peso il figlio e portarlo a casa con sé.
Rischiando, così, l’arresto.
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