Anteprima – Ballata breve di un gatto da strada (La vita e la morte di Malcolm X) – Gildo De Stefano
Vi lasciamo una piccola anteprima gratuita della nostra prossima uscita!
Stiamo parlando del romanzo storico “Ballata breve di un gatto da strada – La vita e la morte di Malcolm X” di Gildo De Stefano. Buona lettura!
1
New York, 21 febbraio 1965, ore 9:00 circa.
In quella chiara e tiepida mattinata di domenica, Long Island appare più dimessa del solito. Il sole emana una luce pallida sulla città, il messaggio della primavera sorride nell’aria, e nel cielo color fiordaliso qualche nuvola, giungendo da sud, vaga oziosamente sull’alto dei tetti. Sul selciato indugiano ancora le ombre invernali e il vento serpeggia attraverso le lunghe strade strette, come l’acqua di un fiume che corre verso il mare. Investe i grigi panni della gente che in lunga schiera si avvia verso le chiese. Agli occhi di Betty i visi dei neri sembrano pallidi di sofferenza e di stanchezza, e i loro sguardi cupi di ansia. Ma anche i bianchi hanno i loro crucci, e mentre questi vanno ad assolvere il rito domenicale, forse si chiedono quanto ancora possa durare quel loro piccolo mondo pieno di benessere, piacevolezze sociali e possibilità di guadagno.
Squilla il telefono.
Inopinatamente la donna ha un sobbalzo, e il netto ritorno alla realtà quotidiana è reso ancor più brusco dalla sorpresa di quella chiamata alle nove del mattino.
Chi può essere?
Mille pensieri le si accavallano nella mente: quello è un brutto periodo per la sua famiglia.
«Pronto!»
«Ciao, cara.»
«Malcolm?!»
«Sì, Betty, sono io.»
«Ma dove ti trovi?»
«Ti sto telefonando dall’Hilton.»
Malcolm ha parcheggiato la sua Oldsmobile azzurra nel garage dell’albergo, uno dei più prestigiosi di New York, situato a Manhattan, al Rockfeller Center, tra la Cinquantatreesima e la Cinquantaquattresima strada, e ha chiesto una stanza. Il concierge gliene ha data una al dodicesimo piano e presa la chiave ha chiamato il facchino per accompagnare il signore al suo alloggio.
Poco dopo altri musi neri entrano nella già affollata hall dell’albergo, chiedendo in giro dove alloggia il tizio entrato poc’anzi. Dai loro sguardi si arguisce una tensione insolita per quell’ambiente così elegante e tranquillo. I grandi lampadari irrorano una luce intensa che mette in risalto lo stato d’animo di quel nugolo di pelle nera. Che stiano cercando Malcolm lo indovinerebbe perfino il facchino da poco ricomparso nella hall.
«Non hai visto niente e nessuno, chiaro?» Il suo capo è fermo e categorico in quelle poche parole, e il ragazzo sa che in quell’albergo una disobbedienza equivale al licenziamento in tronco.
Quegli uomini dagli occhi di ghiaccio, come felini, gli camminano quieti alle spalle, aspettando che sosti da qualche parte, o che dall’interno delle immense sale qualche cosa accada e richiami la sua attenzione.
Ma questo non avviene.
Gli uomini allora, con decisione, lo trascinano di nascosto nelle cucine. Cominciano a fare domande. Forse troppe per l’accorto personale dell’albergo. Naturalmente nessuno risponde e, dal momento che sono a conoscenza dell’ospite di riguardo che alloggia in “casa”, corrono ad avvertire la vigilanza.
Il capo della sicurezza, un ex poliziotto che prima di lavorare all’Hilton prestava servizio nel distretto metropolitano di Manhattan Sud, domina l’impazienza di sbattere quegli individui fuori a calci.
«George!» chiama a viva voce tra quel bofonchiare chiassoso, attirando l’attenzione del suo sottoposto che corre subito da lui.
«Cosa?»
«Abbiamo un ospite di riguardo su al dodicesimo. Scotta un po’ troppo. Fino a che non va via, voglio sapere perfino con quale mano piscia.» Quell’ospite non deve andarsene almeno fino al giorno dopo. Tutto sommato, Malcolm non è un cliente troppo fastidioso: ha lasciato la stanza una volta sola per cenare nella Bourbon Room, situata al pianterreno dell’albergo.
Di tutto ciò Betty non sa assolutamente niente. Ha solo paura per lui, per Malcolm, per il suo uomo. Neanche per tutto l’oro del mondo l’avrebbe lasciato andare a Harlem quel pomeriggio di quella dannata domenica, a parlare nella Audubon Ballroom. Proprio il sabato precedente lo aveva quasi convinto a tirarsi indietro, ma lo conosce fin troppo bene. Egli non avrebbe rinunciato per nessuna cosa al mondo a parlare ai suoi fratelli. È un testardo e ne ha avuto un’ennesima conferma il giorno prima, proprio quel sabato mattina, quando insieme si sono recati dall’agente immobiliare per prendere la casa dove Betty adesso freme per la vita di suo marito. Quella zona di Long Island è abitata prevalentemente da ebrei.
«Sono appena tremila dollari di acconto ed è vostra,» ha ripetuto a perdifiato l’agente immobiliare, ma la cifra poteva anche essere il doppio: a Betty e a Malcolm quella casa è entrata dentro come una spada che trapassa da parte a parte.
«Mi piace, Malcolm.»
«Anche a me, Betty. Prendiamola,» si sono detti in auto mentre tornavano a casa di alcuni amici, dove momentaneamente avevano preso alloggio. Si tratta di un ricovero di fortuna dallo scampato incidente di sette giorni prima. Betty ha ancora davanti a sé l’immagine di quelle lingue di fuoco che s’innalzano al cielo e trascinano per sempre nel nulla parti di loro stessi.
Ma anche Malcolm non ha dimenticato.
L’esplosione, lo svegliarsi di soprassalto, l’acre odore di fumo, gli occhi sbarrati di terrore della moglie incinta, le grida delle bambine, il correre frenetico nel cortile: il tutto paralizzato dal terrore.
«Coraggio, Betty, bambine mie, correte a più non posso,» ha gridato alla sua famiglia. Il senso del ricordo gli è arrivato molto forte, violento. Ha rivissuto intensamente il periodo dell’infanzia che ha conosciuto attraverso i suoi occhi profondi: quell’attimo di tempo tra la realtà e il fragoroso invadere del terrore che gli è giunto alla mente come il rombo di un tuono lontano, quando nel ’29, appena dopo la nascita della sorella Yvonne, si è verificata la stessa notte da incubo, che è diventata poi il ricordo più vivo. Anche allora è stato svegliato di soprassalto da una raffica di revolverate e dalle urla, cui faceva da sfondo un’inquieta mole di fumo e fiamme che ha avvolto la casa paterna. Gli sono riecheggiati in testa le grida e gli spari del padre Earl ai due bianchi che hanno appiccato il fuoco.
Anche allora è stato il panico.
Dappertutto c’era fumo, e loro, piccoli e inermi, si sono tenuti l’un l’altro per mano come in un macabro girotondo, inciampando e spingendosi nell’impeto della fuga. Anche quella notte, non diversa dalla più recente, sono rimasti all’addiaccio con solo gli indumenti notturni che avevano in dosso, stretti l’un l’altro, con le lacrime agli occhi e le grida incastrate tra i denti, osservando sgomenti, assieme agli altri sguardi dei bianchi, bruciare la loro casa.
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